Sinossi: Metropoliz – Roma, in una ex fabbrica di salumi occupata da extracomunitari e precari, un uomo che pensa di essere San Giovanni Battista, viene ben accolto dagli abitanti del luogo. Nella fabbrica si sta per inaugurare una mostra dʼarte contemporanea organizzata dal MAAM (Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz Città Meticcia), il museo sorto di fatto nellʼedificio occupato in difesa dei metropoliziani continuamente minacciati di sfratto. Giovanni vaga tra gli artisti e fa amicizia con i bambini di Metropoliz confondendo la realtà con le sue visioni. Il suo intento è riunire tutti i santi a Metropoliz per ricominciare la predicazione da quel luogo, ma…
Recensione: In questo bel film di Paolo Consorti è in gioco niente meno che la questione del rapporto tra redenzione ed arte. É in gioco la ‘redenzione dell‘arte’ – qui si tratta di un genitivo equivoco che è insieme un genitivo soggettivo ed oggettivo. Si comincia con la domanda: è l’arte capace di redimere? Per finire con la domanda: oppure anche l’arte deve essere redenta? L’opera di redenzione di Giovanni redivivo si rovescerà al punto tale da porre la questione della redenzione dell’opera. In altri termini questo significa porsi la domanda sulla capacità redentiva dell’opera d’arte. Può l’arte da sola dar senso al non senso delle nostre esistenze? Ebbene già solo per il fatto di ritrarre in immagine questo nostro mondo, che ormai cade in pezzi, l’arte mette in atto una operazione di cosmesi.
L’opera d’arte raccoglie insieme gli elementi frantumati delle nostre esistenze per metterli in forma così conferendogli un senso – foss’anche il senso del nonsenso. Non è un caso che questo Giovanni Battista redivivo si ritrovi circondato da tutte le parti da opere d’arte. In primo luogo questo ci porta ad affermare l’opera d’arte come se essa stessa fosse una specie di Giovanni il Battista, ovvero come se l’arte fosse una specie di precursore del senso, che dovrebbe preparare la strada alla venuta del Messia ovvero all’instaurarsi del senso stesso. Che le cose stiano così ce lo dice il finale a sorpresa del film di Consorti: alla fine Giovanni stesso si scopre essere un’opera d’arte – come a dire che il vero precursore, il vero Giovanni Battista è l’opera d’arte. Eppure quando Giovanni alla fine scopre di essere un’opera d’arte (un’opera d’arte in mezzo ad altre opere d’arte, un’opera d’arte dentro un’altra opera d’arte ovvero dentro il film girato da Consorti) sembra fare l’esperienza sconcertante di un abbandono totale ed irredimibile: se è l’arte a redimere chi redimerà l’arte? Nel finale, in cui Giovanni il Battista viene presentato a Pistoletto come un’opera dell’artista Paolo Consorti, Giovanni fa l’esperienza profonda della irredimibilità non solo del mondo, ma sua. La sua opera di redenzione (annunciare la venuta del Messia ovvero del regno del senso) non si rovescia nella redenzione dell’opera – quando Giovanni il Battista si riconosce come opera d’arte si scopre come imprigionato in se stesso, fa esperienza di una irredimibilità radicale. Qui grazie a Consorti siamo messi nelle condizioni di pensare l’opera d’arte come Giovanni il Battista e Giovanni il Battista come opera d’arte. L’arte, proprio come Giovanni il Battista, nella misura in cui annuncia la venuta del senso (l’arte è – come diceva Stendhal – una promessa di felicità) non ha senso o non dà senso, ce ne dà solo un’anticipazione estetica. Grazie all’opera d’arte noi sentiamo (si tratta di un sentire non in tutto e per tutto riconducibile a rappresentazione) che il mondo potrebbe avere un senso e l’opera anticipando questa sensatezza del senso ci prepara, ci predispone ad accogliere questo senso che ancora non si è instaurato. In questo senso l’opera come il Battista invita a colmare le valli e a spianare i colli per preparare appunto la strada al Messia che sta per venire. Eppure durante tutto il film assistiamo ad un continuo differimento dell’indifferibile, ad un continuo rimandare e rinviare quella venuta del Messia che Giovanni sente impellente.
Il dramma di questo Giovanni il Battista (che potrebbe essere benissimo quello che è: un ‘homeless pazzo’) è che l’indifferibile viene continuamente differito (questa è la contraddizione a cui è crocifisso il nostro povero Giovanni). Anche l’opera d’arte sembra presa in questa trappola: dovrebbe annunciare la venuta del senso consumandosi tutta nel far segno verso ciò di cui è segno; ma rischia di ripiegarsi su se stessa rimanendo presso di sé in maniera compiaciuta quasi fosse tutta contenta della propria medesimezza. Invece Giovanni è un’opera d’arte che si consuma tutta nel far segno verso ciò di cui è segno ed in questo far segno non finisce di finire. Giovanni via via sembra ammutolire, sembra essere un segno senza significato, una voce muta, una voce senza la parola; parola che è appunto il Cristo, che Giovanni dovrebbe annunciare. In questo è differente da tutte le altre opere d’arte che affollano il MAAM. Egli è e non è un’opera d’arte come le altre. Gli abitanti e gli artisti di Metropoliz sono convinti che il modo migliore di iniziare a cambiare il mondo (questo mondo che, se deve essere cambiato, è perché non ha senso in quanto diviso in ricchi e poveri, in città e periferia ecc.) è attraverso l’arte; per questo l’arte è affermata dagli abitanti di Metropoliz come preparazione ed anticipazione di un mondo futuro sensato; un mondo, cioè, dove la divisione tra ricchi e poveri venga meno.
L’arte non fa la rivoluzione (intendendosi per rivoluzione l’instaurarsi di un nuovo ordine più giusto), ma la può preparare. Giovanni si aggira per il MAAM senza capire questo ruolo preparatorio dell’opera d’arte. Egli annuncia un’altra redenzione, un altro senso. Giovanni è ritornato per annunciare una redenzione di tipo religioso e non artistico; per questo si aggira tra le opere d’arte del MAAM senza capirle. Egli infatti non crede nella capacità dell’arte di redimere il nonsenso, ma crede che solo la religione possa fare questo. Giovanni ha ragione nel sospettare delle capacità redentive dell’opera d’arte. Infatti un’opera d’arte che pretenda di redimere il mondo dalla sua insensatezza sarebbe inaccettabile perché lo redimerebbe, ma solo nella rappresentazione e non nella realtà. Un’opera d’arte nella misura in cui riconduce a rappresentazione il nonsenso del mondo ci illude, è come se con un colpo di intonaco coprisse tutte le crepe che si aprono sulle pareti increspate del MAAM. Per questo l’arte non solo non può redimere, ma molto di più: non deve redimere. Giovanni si aggira per le opere brulicanti e vorticanti del MAAM rifiutandole proprio perché rifiuta la loro pretesa di redimere il mondo. Redimere il mondo non spetta all’arte e l’arte che lo fa è una falsificazione perché pretende di redimere il nonsenso del mondo attraverso la forma. Per Giovanni non è la forma capace di redimere. Giovanni rifiuta la redenzione attraverso l’arte; per questo non sembra riconoscersi in nessuna delle molte opere presenti al MAAM. A redimere il mondo può essere solo un senso trascendente il mondo, un senso che viene da fuori, simboleggiato dall’attesa del Messia. Eppure questo Messia tarda ad arrivare e le opere del MAAM sembra che siano estranee a questo senso d’attesa: si moltiplicano, proliferano, si sovrappongono le une alle altre senza senso e senza uno scopo. Questo proliferare di opere è espressione di quello spazio di apertura che è il MAAM, che è Metropoliz.
Questa periferia romana è il nuovo deserto per il nuovo Giovanni il Battista. Anche questo redivivo Battista è vox clamantis in deserto ed il suo deserto è rappresentato dalle periferie romane (non è casuale il riferimento a papa Francesco all’inizio del film). Vorrei ricordare un bel verso del mio amico Emiliano Mancuso: “In mezzo alla periferia fa caldo” – e qui paradossalmente stiamo proprio nel mezzo della periferia. Metropoliz, il MAAM sono un deserto non nel senso della mancanza, ma nel senso della sovrabbondanza e dell’eccesso. Il MAAM è un vero e proprio ‘ricettacolo’ di esperienze artistiche caotiche e lussureggianti. Il MAAM è un deserto per eccesso di pienezza, per questo difficilmente rappresentabile. Infatti le opere infestanti (come erbacce) il MAAM non sono mai riprese frontalmente come se fossero appese alle pareti di un museo. Il MAAM non è un vero e proprio museo almeno non lo è nel modo in cui è stato filmato da Consorti. É un deserto lussureggiante come una giungla. Giovanni letteralmente si perde in questo coacervo, in questo agglomerato eteroclito. Tutto va in tutte le direzioni, per questo non sembra esserci un senso (che trasformi questo caos in un allestimento, in una esposizione). Tale arte è rifiutata da Giovanni che si perde nei meandri di questo labirinto. Egli percorre il labirinto convinto che la salvezza stia fuori. Egli quindi cerca di condurre fuori dal labirinto, ma così facendo non fa che perdersi sempre più nel labirinto stesso. Quando alla fine scoprirà di essere anch’egli un’opera d’arte avrà capito che l’unico modo per salvarsi non è quello di cercare l’uscita dal labirinto, ma è quello di restarvi dentro ed abitarlo. Dice il poeta: Nel restare dentro l’inferno con marmorea volontà di capirlo è da cercare la salvezza. Una società destinata a perdersi è fatale che si perda: una persona mai (P.P. Pasolini). Giovanni annuncia un senso che sta fuori e che deve venire da fuori: E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo (Cfr. Marco 14,62). Questo è il Messia atteso da Giovanni e solo da Giovanni; gli altri personaggi del film sembra che non sentano bisogno di orientare le loro vite in funzione di quest’attesa. Giovanni che sembra essere l’unico animato da questa attesa vede sempre differito il ritorno del Messia (dell’amato cuginetto). Ma l’avvento del Messia è proprio ciò che è indifferibile. Prima del ritorno del Messia (con potenza e gloria grande) il mondo è nel più profondo caos e tale caos è inaccettabile – Giovanni non può accettarlo: esso deve essere redento, deve trovare un senso. Ma è l’unico a cercare questo senso come se stesse altrove o dietro le ‘cose’ – questa è la sua dannazione.
Gli altri personaggi del film, invece, sembrano e sono completamente indifferenti non solo a Giovanni (che tollerano amabilmente accettandolo come una specie di povero pazzo), ma anche alla sua ricerca. La caotica vita di Metropoliz non sembra impensierire più di tanto i suoi abitanti e gli artisti. Quello che danna Giovanni è il suo bisogno di redenzione. Tutto è insensato per questo deve venire il Messia. Solo dal punto di vista del ritorno del Messia la vita di Metropoliz può rivelarsi nel suo nonsenso. Ma il nonsenso dove sono immersi tutti i personaggi del film sembra non infastidire molto gli abitanti e gli artisti. Anzi, tutti sembrano guardare a Giovanni con compassione, ma senza comprendere la sua angoscia. Questo nonsenso diventa l’ambito in cui possono apparire le figure – a metà tra allucinazioni ed apparizioni – dei santi amici di Giovanni, che lui vorrebbe incontrare, ma che continuamente sfuggono all’incontro. Le figure dei santi amici di Giovanni (Pietro, Paolo, Agostino, Cecilia, Matteo, Michele ecc.) hanno scelto anche loro – almeno così sembra – di abitare questo nonsenso. L’unico è Giovanni a volere sostituire in maniera decisa a questo intrecciarsi insensato di persone una chiesa, cioè una comunità (chiusa) di santi. Ma le relazioni sociali tra le persone di Metropoliz sembrano non essere raccoglibili in una comunità chiusa come potrebbe essere una comunità di credenti, anche perché questo (come rimproverano a Giovanni i suoi amici celesti) significherebbe dividere ancora una volta gli uomini in credenti e non credenti. Queste relazioni sociali che si intrecciano (in tutte le direzioni quindi senza un senso unico) tra gli abitanti di Metropoliz sembrano non raccoglibili in una comunità chiusa. In questo brulicare e vorticare di relazioni umane e di opere d’arte possono apparire per poi subito sparire gli amici di Giovanni che tutto vogliono fuorché accamparsi con Giovanni per riformare la chiesa primitiva. Metropoliz è una comunità aperta e slabbrata, non retta da logiche di tipo identitario (la potremmo chiamare una ‘comunità di nonsenso’ per sottolineare la dispersione che la caratterizza). Queste relazioni sociali non possono e non devono essere redente perché questo significherebbe chiudere questo spazio aperto (questa apertura) che è Metropoliz ed il MAAM. Da Giovanni questa apertura (tutto questo nonsenso) è vista come un impedimento alla venuta del Messia; mentre per tutti gli altri sembra essere la precondizione perché un senso appaia senza però istallarsi definitivamente.
Giovanni pensa qualcosa come un nuovo avvento del Messia (in gloria e potenza grande) ma in tal modo la figura del Messia occuperebbe tutta la scena riducendo tutte le molteplici e variegate esperienze del MAAM a sgabello dei suoi piedi, a piedistallo per la sua imponente e statuaria figura. Ma è questo il Messia che deve venire? [Giovanni, avendo nella prigione udito parlare delle opere del Cristo, mandò a dirgli per mezzo dei suoi discepoli: «Sei tu colui che deve venire, o dobbiamo aspettare un altro?» (Matteo 11,2-3)]. Chiediamoci se il Messia, che deve venire, deve venire come il divisore, come colui che finalmente (dal punto di vista dell’attesa frustrata di Giovanni) divida il senso dal nonsenso, i buoni dai cattivi, il grano dalla pula (Egli ha in mano il ventilabro, pulirà la sua aia e raccoglierà il suo grano nel granaio, ma brucerà la pula con un fuoco inestinguibile. Matteo 3,12). Il Messia di Giovanni sembra essere il Messia che ha detto: Chi non è con me è contro di me (Cfr. Luca 11,23); mentre l’altro Messia (quello che non si decide a tornare) sembra essere il Messia che ha detto: Chi non è contro di me è con me (Cfr. Marco 9,40). Solo in relazione al Messia (cioè dal punto di vista della redenzione) il mondo si può rivelare in tutto il suo nonsenso; eppure questo nonsenso non è solo qualcosa di insopportabile da eliminare attraverso l’instaurazione di un senso unico (cosa che avverrebbe con la venuta ultima e definitiva del Messia); per questo il Messia non si decide a venire forse perché non deve venire. Il fatto che la persona stessa di Giovanni Battista scopra alla fine di essere un’opera d’arte vuol significare propriamente questo: è interna ad ogni opera d’arte la promessa della redenzione, ma è una redenzione impossibile da realizzare sia attraverso l’arte che attraverso un Deus ex machina che cali dall’alto un senso trascendente capace di silenziare ogni altro possibile e divergente senso. Ogni opera d’arte è promessa di redenzione proprio per questo non può redimere e non deve redimere, altrimenti darebbe senso a tutto il nonsenso del mondo attraverso una forma se non proprio attraverso un’idea. La vera opera d’arte promette la redenzione così da far emergere tutto il nonsenso del mondo, ma non redime nella forma questo nonsenso, ed in tal modo schiude una soglia tra senso e nonsenso, tra forma e materia; cosicché il nonsenso possa essere visitato, sollecitato da altro, dall’Altro.
Quindi dobbiamo dire, relativamente alla “redenzione dell’arte” (genitivo soggettivo), che l’arte non redime né deve redimere; mentre relativamente alla “redenzione dell’arte” (genitivo oggettivo) dobbiamo dire che l’arte stessa ha bisogno di essere redenta, ma non può che restare irredenta a meno di venir meno come arte. Un’arte redenta sarebbe un’arte tolta dal pensiero che pensandola la supera appunto nel concetto (la famosa morte dell’arte di hegeliana memoria). Quindi la irredenzione ed irredimibilità dell’opera d’arte vuol dire che l’arte non finisce di finire, non finisce di morire la sua morte. Ecco il profondo senso di abbandono e disperazione che leggiamo negli occhi di Giovanni quando attraverso Pistoletto capisce di essere un’opera d’arte. L’arte non salva e nessuno la può salvare proprio perché è promessa di salvezza; una salvezza che non è la redenzione, che eccede la redenzione e che nella sua irredimibilità, e quindi disperazione, apre ad una speranza che sia, però, passata attraverso la disperazione stessa. Giovanni ovvero l’opera d’arte (come precorritrice ed anticipatrice del senso, della sensatezza del senso più che di un senso ben preciso e determinato) anticipa qualcosa che non verrà mai; perché, se arrivasse, l’opera d’arte stessa non avrebbe più senso e non avrebbe più nonsenso (se così posso dire). L’opera d’arte anticipa la venuta di ciò che non verrà mai (nel caso dell’opera d’arte, e sopratutto nel caso di quest’opera d’arte, abbiamo a che fare con un messianismo senza Messia di contro alla religione cristiana dove abbiamo a che fare con un Messia senza messianismo – Questo Giovanni il Battista, poi, è veramente un Giovanni il Battista rovesciato, il quale, invece di spianare i colli e colmare le valli, scava abissi ed innalza montagne proprio per preparare la venuta di chi non verrà mai); così facendo apre una soglia tra senso e nonsenso attraverso la quale può venirci a visitare l’altro, l’Altro.
Questo altro nel film di Consorti è rappresentato dalla figura di Michelangelo Pistoletto che entra realissimo nella finzione filmica denunciandola come finzione così trasformando la finzione della realtà nella realtà della finzione; ed in questa realtà riconosce la realtà di Giovanni come finzione e la finzione di Giovanni come realtà cioè come opera di Paolo Consorti. Questa serie di chiasmi che chiude il film in verità dis-chiude una soglia esponendo i personaggi del film così come gli spettatori all’arrischiata visita dell’Altro. Che quest’Altro sia simboleggiato dalla figura di Pistoletto è tanto più significativo nella misura in cui Pistoletto stesso parla in questo film, che si rivela documentario (o in questo documentario che vuole essere un film al limite senza riuscirci), della sua ultima fatica intitolata “Il terzo paradiso” – ecco che ritorna l’idea di redenzione o meglio: l’idea di salvezza. Quando Michelangelo Pistoletto tocca col dito il dito di Giovanni il Battista sembra di vedere la famosissima scena della cappella Sistina in cui il dito di Dio si avvicina al dito d’Adamo quasi in un tocco capace di trasmettere l’energia creatrice. Pistoletto è figura di un Dio che raggiunge l’uomo al di là del bene e del male, al di là del senso e del nonsenso, al di là della redenzione e della dannazione, riconoscendo ogni uomo come un figlio di mamma. Allora il film alla fine si rivela e si trasforma in un documentario sul MAAM e Giovanni si rivela e si trasforma in un’opera d’arte, esposta dentro questo grande museo che è il MAAM, dove non ci sono buoni o cattivi, ma sono tutti figli di MAAMma (ritorna questo sguardo indulgente quasi assolutorio di Paolo Consorti sui suoi personaggi già sottolineato in occasione del primo lungometraggio del regista intitolato: “Il sole dei cattivi”). Tale musealizzazione di quell’opera, che è lo stesso Giovanni il Battista, è la conclusione amara del film. Niente e nessuno sfugge a tale musealizzazione anche se si tratta di un museo alternativo ai soliti circuiti museali – in fondo il capitale ha un’incredibile capacità di digerire (come diceva P.P. Pasolini).
Stefano Valente