“Due vite parallele, tanto divergenti per atteggiamento quanto affini per campi d’indagine. Con l’elogio della segretezza a far da titolo ossimorico in un percorso documentario che lega due menti il cui intento è stato a lungo – piuttosto che il negarsi alle attenzioni esterne – quello di crear scandalo e scompiglio.”
Due vite parallele, tanto divergenti e opposte per atteggiamento quanto affini per campi d’indagine. Con l’elogio della segretezza a far da titolo ossimorico in un percorso documentario che lega due menti il cui più o meno intenzionale intento è stato a lungo – piuttosto che il negarsi alle attenzioni esterne – quello di crear scandalo e scompiglio nell’establishment artistico, mondano e globale del XX secolo.
Indagando su una sfera privata che, mai quanto per le due celebri figure d’europei traslocatisi in America, va a coincidere in buona parte con il cammino creativo di due esistenze vissute nel tentativo di eccedere il mestiere e il ruolo d’artista per modellarsi come un’opera d’arte vivente, la serata del Detour ha presentato una coppia di lavori da definire “terminali” per come si avvicinino entrambi – a mo’ di ricapitolazione finale d’una carriera – alla morte terrena degli stessi protagonisti.
Tra Marcel Duchamp – L’insostenibile leggerezza del XX secolo, intervista a largo raggio che Jean Antoine ha girato nel ’66, due anni prima della morte dell’inventore dei ready-mades, e The Fame and Shame of Salvador Dalì (1997) di Mike Dibb e con Ian Gibson (il biografo dell’artista), nel quale si ricostruisce l’intera vita del pittore di Cadaques, dall’infanzia e fino all’ultima grottesca intervista in ospedale, lo scontro dialettico avviene su più punti: lo stile di regia, il rapporto tra pubblico e privato, e, inevitabilmente, il carattere del materiale umano a disposizione.
Se Duchamp – metafora della serenità più carica di umorismo – è inquadrato con camera fissa, mentre, completamente a suo agio, conversa con pacatezza seduto in poltrona e con sigaro in bocca, in tutto il lavoro di Dibb Dalì è colto nell’angosciosa e fremente condizione di chi cerca continuamente il suo posto nel mondo, traballante nella sua solo superficiale sicurezza, e piuttosto sempre sull’orlo di una crisi di nervi (non a caso fu lui a coniare il metodo paranoico-critico).
Due amoralità di diverso segno e diverso umore. Dal Duchamp che ironicamente confessa di soffrire il peso d’esser stato definito da Andrè Breton “l’uomo più intelligente del mondo”, al Dalì che, fanatico narcisista com’era, scrisse che, a furia di pensar d’esser un genio, tale diventò veramente.
Due radicalità opposte, con il francese che ben presto decise di andare al di là del gusto, sbarazzandosi del giudizio estetico e negando alla retina ogni potere discriminante. E al versante opposto lo spagnolo, che continuò a dirsi e farsi surrealista, nella costante ricerca della meraviglia degli occhi, arrivando fino a rinnegare la spinta iconoclasta degli anni giovanili.
Eppure entrambi lucidi manipolatori di codici, simboli e stereotipi, avvinti nella lotta con/contro il potere ingannevole e ambiguo del linguaggio parlato, capace di creare mondi, oltrepassando ogni presunzione di realtà e anzi facendo franare qualsivoglia presunta oggettività del saper nominare, del saper de-finire e, ovviamente, del saper vedere.
Un poter di cui servirsi (e qui ritroviamo il Dalì che dichiara: “io sono molto intelligente, non dico mai la verità”) o di cui diffidare con attenzione, soprattutto quando servono e non riescono, se non con vana approssimazione, a parlare di un altro linguaggio.