Nata a Roma nel 1971 ma ha sempre vissuto a Catania. Il debutto davanti alle telecamere avviene nel ’91 con due programmi di musica e cultura giovanile da lei stessa ideati e condotti sulle maggiori tv locali siciliane. Nel 1993 inizia la collaborazione con una rete musicale scrivendo e realizzando interviste in giro per il mondo per poi passare alla conduzione del programma quotidiano cult Segnali di Fumo. Nel 1995 presenta 105 Night Express su Italia uno per quattro stagioni consecutive .
Nel 2001 diventa uno dei volti più autorevoli di MTV conducendo Select; A Night With, Supersonic , Brand:new e le interviste speciali ai più importanti artisti internazionali.
Attualmente presenta Storytellers, appuntamento in cui nomi del mondo musicale raccontano la genesi delle loro canzoni. Giornalista pubblicista, Paola ha studiato alla Sorbona di Parigi, al Christ Church College di Canterbury e vissuto tra Chicago e Tijuana. Esperienze, queste, che le hanno permesso di conoscere perfettamente inglese, francese e spagnolo.
Una volta i produttori usavano mettere insieme più corti per far uscire un film a più episodi (penso a “RoGoPag” o “Tre passi nel delirio”).
Come mai secondo te questa via viene usata sempre meno di frequente?
In realtà succede ancora: penso – negli anni Novanta – ai lavori collettivi “80 mq – Ottantametriquadri”, a “De-generazione” (che lanciò come registi i Manetti Bros., Alex Infascelli, Asia Argento), a “Strane storie” di Sandro Baldoni (composto da tre corti). Anche i vari “Manuale d’amore” seguono lo stesso principio. È un fatto però che i cortometraggi una volta erano considerati un genere di nicchia ma solido, in grado di guadagnarsi un pubblico nelle sale se accorpati fra loro. Oggi sono considerati soltanto un genere di nicchia e basta.
Per quale motivo i corti non riescono ad essere commercializzati seriamente?
Perché non riescono ad esserlo nemmeno i lunghi: fatti salvi i cinepanettoni e i prodotti di larghissimo consumo, il resto del cinema italiano va allo sbaraglio sul mercato. Il problema più grosso è l’indifferenza. Il pubblico è diventato incapace di riconoscere un talento persino se gli precipitasse in testa. Per i grandi film ci sono i critici che (sempre meno, peraltro) orientano – e spesso condizionano – i gusti del pubblico. Ma i cortometraggi (che si vedono poco e di cui poco si scrive) sono una terra di nessuno che pochi conoscono e pochissimi apprezzano. Questo analfabetismo di ritorno del pubblico ottiene come unico effetto quello di scoraggiare i produttori ad investire in nomi nuovi, spingendoli a puntare esclusivamente su registi che rappresentano il presente (quando non il passato) del nostro cinema.
In poche parole con la tua trasmissione 25A ORA – IL CINEMA ESPANSO quale obiettivo ti prefiggi?
Di dare spazio al cinema italiano indipendente: cortometraggi, lungometraggi e documentari che solo i più accaniti frequentatori di festival hanno la possibilità di vedere. “25a ora” è una piccola riserva indiana, un’anomalia clamorosa nella tv generalista di oggi. Una trasmissione aperta a tutti gli autori emergenti, anche quelli non glamour, anche i “brutti, sporchi e cattivi”, anche (e soprattutto) i non “amici di…”.
Come nasce questo splendido titolo, “25a ora”?
La “25a ora” è l’una di notte ma anche l’ora che non c’è, dedicata a un cinema che non c’è. O meglio: a un cinema che c’è ma non si vede. La citazione dietro al titolo è quella dello straordinario romanzo del 2002 di David Benioff, a sua volta trasposto in uno straordinario film dal regista Spike Lee. In quanto al sottotitolo della trasmissione – “Il cinema espanso” – è la traduzione italiana di “Expanded Cinema”, il saggio del 1970 di Gene Youngblood che per primo considerò il video una forma d’arte.
È una nostra impressione o nel nord Europa c’è più attenzione che in Italia rispetto a questa cultura cinematografica dei corti?
Il Nord Europa è storicamente più attento al fenomeno del cortometraggio, in termini di propensione a sperimentare, di sensibilità critica, di visibilità. L’effetto “biglietto da visita” per un nuovo autore funziona meglio che da noi: “Vuoi vedere come giro? Ecco i miei corti”. Ma anche lì è un genere che non si ritaglia grandi fette di mercato.
Nella tua esperienza avrai conosciuto parecchi autori italiani specializzati in cortometraggi. Tra questi ti senti di consigliarci qualche nome?
Nel corso delle varie puntate ne ho incontrati parecchi, difficile concentrarsi solo su qualche nome. Ne cito due, tra i tanti: il mio conterraneo Luca Scivoletto e il romano Alessandro Celli. Sono i vincitori delle prime due edizioni del “Festival del Corto” di 25a ora, il primo con “Ho deciso”, il secondo con “Montesacro”. Sono due talenti straordinari, che meritano di trovare qualcuno che creda in loro, e che dia loro la possibilità di misurarsi con un lungometraggio.
Pensi che i corti italiani abbiano qualcosa da invidiare a quelli stranieri? Rimaniamo in ambito europeo…
Una volta in effetti era così: noi eravamo più attenti al contenuto che alla forma, al colpo di scena finale che alla cura dell’immagine, mentre all’estero i registi curavano molto di più gli aspetti formali. Da qualche anno però il gap è stato colmato. Anzi, oggi capita spesso che i corti italiani trasmettano un senso di verità e un’urgenza narrativa che altri lavori stranieri un po’ freddi e leccati non hanno.
Vincenzo Patanè Garsia