Fury scritto e diretto da David Ayer è ora disponibile su Netflix .Il film racconta la storia dell’ultima missione di cinque soldati americani in campo nemico, sullo sfondo di una Germania ormai collassata ma non ancora arresa.
Trama e cast
Nell’Aprile del 1945, mentre gli Alleati sferrano l’attacco decisivo in Europa, un agguerrito sergente, Wardaddy, comanda un carro armato Sherman e il suo equipaggio di cinque uomini in una missione mortale dietro le linee nemiche. In inferiorità numerica e disarmato, Wardaddy e i suoi uomini saranno protagonisti di gesta eroiche per colpire al cuore la Germania nazista.
Nel cast: Brad Pitt, Shia LeBeouf, Michael Peña, Logan Lerman, John Bernthal, Jason Isaacs e Scott Eastwood.
David Ayer è uno sceneggiatore e regista statunitense che alcuni ricorderanno per la sua prima sceneggiatura da solista, quella di Training Day di Antoine Fuqua, e i più per la regia dei lungometraggi Harsh Times o End of Watch. In Fury, quinta sua opera da direttore artistico, continua a tratteggiare la ricetta della sua ispirazione, condita di eroismo maschile (a volte macchiettistico), patriottismo, cameratismo e molti altri -ismo di dubbio valore etico.
Fury: un film di guerra che convince poco
Fury è il sanguinolento resoconto di una pagina di guerra e di storia che non ha riportato vinti né vincitori e che soprattutto non puzza di eroismo o viltà. Ma di morte. Eppure Ayer non sembra del tutto d’accordo. Basti guardare alla stoica figura, che con fin troppa caparbietà si staglia – altissima – su tutto e tutti, del sergente Don Collier, interpretato dal plurimedagliato Brad Pitt.
Purtroppo per Ayer neanche il camaleontismo dell’attore statunitense, che dai tempi degli esordi ha brillantemente ricoperto i ruoli più diversificati, riesce a risollevare le sorti di un film che per una buona metà altro non è che una summa di clichè, retorica, leziosi elementi hollywoodiani e guerra! guerra! guerra!
Non è esagerato dire che a volte sembra di stare, annoiati, davanti allo schermo di un vecchio spara-tutto con il joystick in mano, privati però dell’adrenalina del gioco e dell’ignota conclusione della partita. …Inutile dire che clichè dopo clichè, battuta dopo battuta il film prepara lo spettatore al grandioso e quantomai scontato finale!
I personaggi
A ruotare intorno all’eroica figura del sergente Collier, soprannominato “Wardaddy”, altri quattro uomini: “Bible” (Shia LaBeouf), “Gordo” (Michael Pena), “Coon-Ass” (Jon Bernthal) e la giovane recluta, Norman (Logan Lerman), in seguito ribattezzato “Machine”.
Ancora una volta degne di nota sono le prove degli attori: significativa l’interpretazione di Shia LaBeouf che con la sola forza dello sguardo riesce sul finire, nella scena a più alto tasso di pathos, a sfiorare con mano la guancia bagnata dello spettatore. Ma nonostante tutto i personaggi non riescono a saltar fuori dal palcoscenico del già scritto e già visto e come se non bastasse di contro manca uno scavo psicologico convincente. Il sergente Collier e i suoi scagnozzi altro non sono che quello che ci si aspetta da loro: macchine da guerra mosse da sangue, vendetta, cinismo e paura. Diverso, ma non meno imprevedibile, il personaggio dell’inesperto Norman, giovane arruolato come dattilografo e poi spedito in prima linea senza alcuna cognizione di guerra.
Buona parte della partita è ovviamente giocata sul campo del rapporto tra il veterano Wardaddy e l’innocente Norman che, svezzato dal sergente prima come uomo e poi come “Machine”, vedrà in lui, e fin troppo improvvisamente, un mentore, un simbolo, un motivo per cui gettarsi in un’eroica impresa.
Tanto, troppo patriottismo
Ambientato in Germania, sul finire della Seconda Guerra Mondiale, il film è l’infedele ritratto di un cruento e triste momento storico. E’ vero siamo di fronte agli ultimi, ostinati tentativi dei tedeschi di cercare di ridisegnare le sorti di un conflitto di cui è ormai evidente l’epilogo. Ma solo occhi appannati da patriottismo e da una fede sconsiderata negli sterili valori della divisa e della bandiera possono vedere la storia in questi termini. Mai, nemmeno per un momento, Ayer sembra vacillare: così, a battersi sono l’eroe buono americano e il nazista senza scrupoli. Eppure, in due uomini che si sparano vicendevolmente, sembra difficile riconoscere ora il bene ora il male. Ma il film non sembra ammettere altra logica se non quella dei suoi protagonisti.
D’altro canto, vuoi per la spettacolarità intrinseca della scena, vuoi per le buone prove attoriali o per l’archetipica capacità di certi argomenti di toccare le vibranti corde dell’umano sentire, è anche vero che sul finale il film riesce in qualche modo a sussurrare commozione e suscitare curiosità. Probabilmente quindi una selezione più acuta e meno permissiva in fase di montaggio avrebbe potuto rendere il ritmo più serrato e l’opera più accattivante e meno densa di stereotipi.
Inoltre, particolarmente toccante risulta la scena in cui Norman prima copre e poi abbraccia il corpo morto del sergente Collier. Con gli occhi lucidi e il respiro spezzato tocca quel feticcio, lo stringe a sé: la bocca è aperta, lo sguardo stanco e perso, l’anima in frantumi. E in quel momento, lì, dentro quel carro armato che sa di gabbia e sa di casa, d’un tratto la scena e con lei il film si sciolgono in cristalli di empatia pura che toccano e travolgono lo spettatore.
Conclusioni
In definitiva, scelte di casting più che mai azzeccate, accompagnate dal tocco realistico della fotografia del russo Roman Vasyanov, rendono passabile un prodotto superato, auto-referenziale e tipicamente hollywoodiano.