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«Non accompagno mai i miei film in pubblico perché penso non abbiano bisogno di spiegazioni e perché il cinema non è tutto il circo che gli si forma intorno».
Lunedì 11 gennaio si spegneva a 89 anni Jean-Marie Maurice Schérer, vero nome di Eric Rohmer, nato a Nancy nell’aprile del 1920, scrittore, critico, professore, ma soprattutto regista. Probabilmente il più anziano dei cineasti della Nouvelle Vague composta da François Truffaut, Claude Chabrol, Jean-Luc Godard e Jacques Rivette. Solo il padre ispiratore André Bazin aveva più anni di Rohmer. Leggendaria risulta la sua riservatezza (poche foto, pochissime interviste), era allergico ai festival anche quando venivano ospitate le sue opere: «Non accompagno mai i miei film in pubblico perché penso non abbiano bisogno di spiegazioni e perché il cinema non è tutto il circo che gli si forma intorno. Per continuare a farlo ho bisogno di vivere la mia vita, entrare nei musei, passeggiare in campagna». Celebre l’aneddoto per cui avrebbe a lungo celato la sua attività alla madre, spacciandosi per insegnante. Nel 1942 si laurea in letteratura e nel 1951 fonda con André Bazin, Jacques Doniol-Valcroze e Joseph-Marie Lo Duca, i Cahiers du cinema, ovvero le fondamenta ideologiche-critiche della Nouvelle Vague e un anno prima esordisce con un cortometraggio ormai perduto, Diario di uno scellerato. Nove anni dopo realizza il suo primo lungometraggio, l’esordio meno celebre della Nouvelle Vague: Il segno del Leone. In cinquant’anni di carriera, di film ne farà 24.
Rohmer organizzava le sue opere secondo cicli, come i grandi narratori dell’800: i sei racconti morali girati nel decennio tra il 1962 e il 1972; le commedie e i proverbi realizzati negli anni Ottanta. Il suo è stato sempre e coerentemente un cinema parlato sull’amore e sulle infedeltà, dove il paesaggio, preferibilmente di campagna, e i rumori si univano volentieri al sublime e aristocratico chiacchericcio che non avrebbe sfigurato presso la nobiltà francese del Settecento. La qualità più alta di Rohmer, per il collega e amico Bertrand Tavernier, è stata quella di «realizzare film dove il testo, il movimento delle parole assumesse la stessa importanza del flusso delle immagini. Con i Proverbes, i Contes Moraux, ha dato vita non tanto a una serie cinematografica, quanto a un’idea di cinema che lo rende straordinario e rivoluzionario al pari di Godard. Magistrale la leggerezza con cui trasformava schermaglie intellettuali in chiacchiericcio, sulle labbra di giovani, leggiadre interpreti. Un erede, nel cinema, dei grandi moralisti francesi, da Montaigne a La Bruyère, a Voltaire».
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