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Trieste Film Festival: Risttuules di Martti Helde

Nel film estone in concorso al Trieste Film Festival il seducente impianto formale si fonde con l’accurata rievocazione dei risvolti più cupi, tragici e disumani di un determinato periodo storico.

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Il primo film nel quale ci siamo imbattuti, dopo essere arrivati a Trieste, si è rivelato già di una bellezza superba e straziante, col suo unire a un’estetica estremamente ricercata il doloroso ricordo di fatti storici indubbiamente tragici. Stiamo parlando di Risttuules (ovvero Dove si incrociano i venti) dell’estone Martti Helde, classe ‘87. Vista anche la giovanissima età dell’autore, scoprire un film di una tale maturità stilistica ci ha lasciato letteralmente senza fiato. La cornice storica cui si allude è l’occupazione sovietica dei Paesi Baltici, in virtù di una clausola segreta del patto Molotov-Ribbentrop. Nel 1941 decine di migliaia di estoni vennero deportati nei più remoti campi di lavoro della Siberia, a partire perlopiù dagli intellettuali, da coloro che avevano ricoperto incarichi politici o militari nella precedente entità statale, insomma, a partire da chiunque venisse identificato come un dissidente o un potenziale oppositore, nel micidiale apparato repressivo che Stalin anche lì stava allestendo.

Il meravigliosamente lirico e triste lungometraggio che Martti Helde ha diretto si basa, nello specifico, sulle drammatiche testimonianze epistolari lasciateci da una donna estone, Erna, che dopo svariati anni di prigionia affrontati in condizioni di grande sofferenza fisica e psicologica riuscì a tornare nel proprio paese d’origine; ma in quella realtà disumana, che altri avrebbero poi ribattezzato “arcipelago Gulag” aveva intanto perso una figlia e un marito.
Oltre all‘approccio così empatico e dignitoso alla materia trattata, del film baltico ci ha immensamente colpito il coraggio nello sviluppare una ricerca formale e stilistica coerente, seppur ai limiti del manierismo. Girato in un elegante bianco e nero, Risttuules fissa i ricordi felici della coppia protagonista in alcune sequenze molto leggiadre, poetiche, nelle quali il movimento è ancora presente. Ma, con un azzardo non da poco, appena inizia la fosca parabola della deportazione e degli orrori affrontati durante l’esilio lo stile muta repentinamente: quasi fossero “tableaux vivants” del terrore e della sopraffazione, i ricordi della protagonista si trasformano in lunghi piani sequenza dove i gesti degli aguzzini sovietici e la sofferenza delle vittime si congelano in una immobilità innaturale, ma comunque plastica, visto che la macchina da presa continua a indagare la scena nella sua tridimensionalità, come alla ricerca di dettagli rivelatori.

Un esercizio di stile così affascinante e complesso non appare, comunque, fine a se stesso. Serve anzi a proiettare le dinamiche più delicate e sofferte del ricordo nella sensibilità dello spettatore. Il seducente impianto formale dell’opera si fonde quindi in modo molto naturale con l’accurata rievocazione dei risvolti cupi, tragici, disumani, di un determinato periodo della storia europea. E per chi, suggestionato dalla visione, volesse allargare il raggio approfondendo la tormentata storia dei paesi in questione non soltanto negli anni della Seconda Guerra Mondiale, ma in una prospettiva più ampia, consigliamo anche la lettura dell’ottimo saggio di Pietro U. Dini, intitolato L’ anello baltico. Profilo delle nazioni baltiche. Lituania, Lettonia, Estonia.

Stefano Coccia

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