“Possibile restar fedele all’assenza di sintassi, alla scarnificazione del linguaggio e alla sovversione della comunicazione, quale ha sempre tentato di essere la musica e la vita di John Cage? Peter Greenaway ha accettato questa ardua sfida, confrontandosi con un metodo creativo e con una personalità di gran lunga divergenti dall’assoluto e vertiginoso controllo costruttivo che caratterizza i suoi film.”
Possibile restar fedele all’assenza di sintassi, alla scarnificazione del linguaggio e alla sovversione sistematica e randomizzata della comunicazione, quale ha sempre tentato di essere la musica e la vita di John Cage?
Scegliendo di riprendere, per la sua serie Four American Composers, le performance che un “music circus” ha eseguito nella chiesa sconsacrata di St James, a Islington, Londra, in occasione dei settanta anni dell’artista americano, Peter Greenaway ha accettato questa ardua sfida, confrontandosi con un metodo creativo e con una personalità di gran lunga divergenti dall’assoluto e vertiginoso controllo costruttivo che caratterizza i suoi film.
Compiendo un excursus sui primi 40 anni di carriera di Cage, da “Living Room Music” del ’40, pezzo per percussioni (oggetti-strumenti trovati in una stanza) e fino al “Roaratorio” del ’79, scritto a partire dai mesostici del Finnegans Wake di Joyce, Greenaway traccia in modo personale una ri-scrittura della biografia cageana, procedendo – e qui sembra fedele allo spirito del compositore – per accumulo e stratificazione di materiali, sovrapponendo le esecuzioni live dei brani con le letture (che Cage stesso fa) delle “Indeterminacy Stories” (90 pezzi da un minuto di durata, brevi racconti dai periodi privi di coordinate e spogliati d’ogni connotazione, composti nel 1959 e accompagnati dalle note di David Tudur), con le conversazioni-intervista registrate per l’occasione, con i rumori ambientali.
Pur se destinato alla tv britannica e costretto dentro il limite dei 60 minuti, il documentario evade dai canoni più scontati della divulgazione. Dopo una breve introduzione con voice over, Greenaway lascia infatti allo stesso materiale costruttivo il compito di fare da presentazione al personaggio e all’artista Cage, affidando all’inconsueto affastellarsi di tracce audio – e all’interscambio di queste con le immagini, i testi, le fotografie – il ruolo di elemento portante in un lavoro scandito da un ritmo capace anche di brusche variazioni e di improvvisi arresti.
Tuttavia, se si ammette che Cage sia riuscito, attraverso la sua esistenza da iconoclasta, ad eccedere lo specifico musicale, consentendo l’irruzione della vita nell’arte, scegliendo di affidarsi al caso (“Not by chance but at random”, suggerisce lo stesso) per non cadere nella trappola dell’intenzionalità e del soggettivismo, non altrettanto si può dire di Greenaway con lo specifico filmico (né questa era qui evidentemente la sua volontà).
E forse il problema sorge insormontabile fin da una disamina della natura del dispositivo, negando alle immagini, attraverso l’uso del montaggio come collante causale, quello che Cage suggeriva per i suoni: “Non voglio che un suono mi parli, nè che sia un secchio, un presidente, o che sia innamorato di un altro suono: voglio che sia solamente un suono”.
Ma è anche bene ricordare che, se Cage suggeriva di “suonare con le finestre aperte”, c’era chi come Jean Renoir, negli stessi anni, diceva – con la stessa ansia di non separarsi dal mondo e di non negarsi all’in-audito e al “mai visto” – di lasciar sempre aperta (alle sorprese del caso) la porta del set durante le riprese.