Tratto dal romanzo di Andrew Hodges, Alan Turing. Storia di un enigma, The imitation game del novergese Morten Tyldum porta sul grande schermo l’unicità di un genio estremamente vulnerabile e malinconico
Trama: Siamo nella Manchester dei primi anni ’50 quando il geniale matematico Alan Turing viene accusato di omosessualità. Messo sotto torchio dall’agente che lo ha arrestato, Turing inizia a raccontare il suo passato gravoso di silenzi e segreti taciuti, condensati negli anni della Seconda Guerra Mondiale, quando, a capo di un manipoli di cervelloni, linguisti e giocatori di scacchi, cercava la risposta di Enigma, l’indecifrabile macchina di codici criptati usata dai Nazisti per comunicare segretamente le loro operazioni militari.
Recensione: la complessità di Enigma ha sedotto il cinema solo in tempi recenti, prima con U-571 del 2000 di Jonathan Mostow, dove l’esercito americano tentava di recuperare il marchingegno da un sommergibile tedesco, poi nel più analitico Enigma del 2001 di Michael Apted, che snocciolava i segreti di Bletchley Park dove un gruppo di scienziati stava lavorando alla risoluzione del codice della macchina nazista. All’ombra di tutti gli altri componenti del team c’era Alan Turing, che aveva nel film la sua prima, seppur debole, menzione cinematografica. Ci pensa adesso The imitation game a rispolverare la figura di un genio eroico, che col suo contribuito riuscì ad abbreviare la guerra di quasi due anni e a salvare la vita di milioni di persone, nonché a dar vita all’antesignano dei nostri più moderni computer. Turing è la rappresentazione in carne e ossa di quel “gioco imitativo”, di quell’enigma che tutto il film porta avanti: accanto alla clandestinità di una ricerca fatti di sacrifici e segretezza c’è quella di Turing stesso, costretto a farsi martire di una società ottusa e ristretta, che non sa decifrare e risolvere come i suoi cruciverba da sei minuti. Gettato in pasto al perbenismo con l’accusa di omosessualità, Turing sceglie prima la castrazione chimica piuttosto che il carcere, poi la più dolorosa delle soluzioni, suicidandosi a soli 41 anni, colpevole di non essere riuscito a domare quella fragilità, controparte ingombrante del suo talentuoso genio.
Rifiutando la linearità classica, il biopic alterna fluidamente passato e presente, costruendo un racconto pulito e preciso. Niente virtuosismi per la macchina da presa, che serve l’inquadratura alla bravura di Benedict Cumberbatch, magistrale interprete di un protagonista goffo e timoroso nelle relazioni con gli altri, ma spiazzante nella passionalità viva e piena del suo lavoro.
Domiziana Ferrari
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