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Interviews

Intervista a Andrea Appetito e Christian Carmosino

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Già selezionato al Festival del Cinema di Roma, “L’ora d’amore”, l’originale documentario girato nel carcere di Rebibbia da due giovani e talentuosi registi, Andrea Appetito e Christian Carmosino, è stato presentato alla 16esima edizione dell’Officinema Festival, presso la Cineteca di Bologna (18-22 febbraio) e sbarcherà al 24 Torino GLBT Film Festival (23-30 aprile).

Basato su storie vere ed interviste intra-moenia a persone detenute, il documentario esplora il problema dell’affettività in carcere, di come si vive una storia d’amore o un rapporto con coniuge e figli all’interno di un’istituzione totale. In Italia, infatti, non è previsto come in altri paesi – dove esistono apposite stanze in cui i detenuti possono trascorrere del tempo in intimità con il partner – che chi sconta una pena detentiva possa dormire con il coniuge, neppure per buona condotta. Taxi Drivers ha incontrato i due registi per saperne di più.

Com’è nato il vostro sodalizio artistico, e come scegliete i vostri soggetti?

Ci conosciamo dai tempi dell’Università e siamo amici da allora, ma ci siamo sempre scambiati idee sul lavoro; per un periodo ci siamo separati perché uno di noi è andato a lavorare in Colombia e l’altro in Spagna. Poi c’è venuta l’idea di realizzare un corto sul bel racconto di Andrea, “Chi è Pilar?”. Ci piacciono i documentari, ma non abbiamo preclusioni, siamo aperti a ogni tipo di linguaggio.

Perché questo documentario su un tema così particolare come quello dell’ affettività in carcere?

È stato un lavoro lungo e faticoso: avevamo iniziato un progetto sui detenuti politici ma poi, dopo un anno di volontariato svolto da Andrea in carcere con l’Associazione Ora d’Aria, è nata l’idea di realizzare un documentario sulla metafora delle barriere, sulla continuità del dentro e del fuori e sulla voglia di raccontare l’ordinarietà delle storie d’amore in carcere che assomigliano a tutte le altre, con le barriere che, se nel carcere sono visibili, fuori lo sono meno ma ci sono. E in tutti i casi sull’impossibilità dell’amore. Molti, nel mondo esterno, si chiudono in altre forme di prigionia, si recludono nelle convenzioni sociali.

Come avete scelto le persone detenute da intervistare? E quanto tempo avete impiegato?

Loro hanno scelto noi. Erano quattro le storie che volevamo raccontare, ma alla fine una non è stato possibile. I detenuti intervistati – Mauro, Fatima e Angelo – stanno già scontando una condanna per i reati commessi, la sottrazione della vita affettiva e sentimentale è una pena aggiuntiva che non ha nulla a che fare con il crimine. In carcere abbiamo imparato ad avere pazienza: attese indefinite ma anche senso di responsabilità per il tempo dei detenuti che non appartiene a loro, è alienato.

Perché avete scelto di non parlare del reato che queste persone hanno commesso?

In parte perché non c’è stato concesso di parlarne, ma anche perché non era nel nostro interesse, riteniamo che classificare le persone in base ai loro reati sia un modo superficiale e stereotipato di pensare al problema, anche se hanno sbagliato ciò fa parte della loro vita precedente, a noi interessava l’affetto umano e le relazione, i loro reati non hanno a che fare con la loro vita sentimentale attuale. C’è una specie di curiosità morbosa nel guardare al carcere come ad uno zoo, ad un luogo esotico, e si è ansiosi di sapere come classificare i detenuti e con quale crimine identificarli: questo atteggiamento scandalistico non ci interessa.

Cosa volevate effettivamente raccontare?

A noi interessava fare un’indagine sull’amore, c’interessava l’ordinarietà di queste persone nella straordinarietà del contesto. Ovviamente, come detto prima, si tratta di una metafora perché, anche se noi non vediamo una grossa differenza fra dentro e fuori, certi schemi, certi limiti, esistono. Ma il carcere che abbiamo raccontato è una dimensione metafisica, dove agenti ed educatori rimangono in secondo piano, così come i rumori della vita di tutti i giorni sono solo di sottofondo.

Elisabetta Colla

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