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Promettilo!

“Kusturica sceglie di eccedere, facendosi beffa di ritualità e stereotipi di ortodossie tanto filmiche quanto religiose. Nel bene o nel male gioca tutto sulla superficie….”

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Emir Kusturica non cerca la credibilità né la verosimiglianza. Il suo buffo e ingenuo Tsane (Uros Milovanovic), adolescente contadino sprovveduto, con sincerità racconta bugie – una verità arricchita – e non vuole che gli si creda. Inciampa tra le storture e i trucchi del mondo adulto, incantandosi delle meraviglie metropolitane (dei piani d’un grattacielo quanto delle curve d’una donna). Eppure, come uno strano ibrido d’un personalissimo catalogo di rimandi finzionali che potrebbe andare dal Buster Keaton di Go west, passando per i bambini del De Sica neorealista e abbracciando infine il certamente meno noto, ma non meno indimenticabile Guizzardi creato dalla penna di Gianni Celati, con ostinazione persegue e porta a termine gli obiettivi promessi all’anziano nonno prima di partire per il suo viaggio iniziatico che, cominciato con ombrello e mucca al seguito, finirà nel più gioioso e improvvisato degli altari.

Tra slapstick – congegni e trappole meccaniche, caratteristi e torte in faccia – visionarietà che vaga dal primo Tarkovsky agli amanti in volo sui tetti di Chagall, giochi metalinguistici (la più volte ripetuta pulsione scopica dello spiare attraverso un binocolo), inquadrature dall’alto valore figurativo (le donne – soprattutto l’incantevole e dolcissimo volto di Jasna, Marija Petronijevic – riprese dietro i vetri d’una finestra o sul davanzale) e ripetuti richiami alle sonorità e alle peculiarità del mondo gitano, Promettilo!, girato in Serbia nel 2007, presentato a Cannes l’anno successivo e solo ora distribuito in Italia, non cerca la misura né l’equilibrio, bensì si permea d’un grottesco che sfocia presto nella farsa e nella parodia dei generi, nel caricaturale o finanche nel demenziale.

Kusturica sceglie di eccedere, facendosi beffa di ritualità e stereotipi di ortodossie tanto filmiche quanto religiose. Nel bene o nel male gioca tutto sulla superficie, ovvero senza alcuna volontà d’introspezione psicologica. I corpi in scena sono privi di caratterizzazione interiore, ma piuttosto messi lì come parte del congegno spettacolare, strumento di gag e raccordo tra intuizioni visive capaci di vivere di forza autonoma, spesso sopravvivendo anche ad imbarazzanti battute al limite della decenza.

Colora l’immagine con tonalità emotive molto nette e distinte. Ricorre ad un certo plateale manicheismo compositivo, sia nella forma che sul piano narrativo. Dai luoghi alle situazioni fino alle caratteristiche fisiche dei personaggi imperversano polarità opposte sempre sul punto di scontrarsi: città/campagna, purezza/prostituzione, buoni/cattivi, alto/basso, fino al crocevia tra matrimonio/funerale che trasforma il finale del film in un chiassoso e delirante inno alla vita, dichiarata parodia favolistica con inevitabile happy end.

Salvatore Insana