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Intervista a Abel Ferrara

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“New York è una città nata sulle strade” ricorda Martin Scorsese in Gangs of New York. Ma questo lo sa bene anche Abel Ferrara. Scorsese affronta la questione con un tono epico, a volte omerico come nel film sopra citato, altre volte lucido e indagatore come in The departed o addirittura kafkiano come nel suo ultimo vero capolavoro, Fuori orario. Ferrara, invece, attraverso il suo cinema ci propone una New York (ma anche un’America) fuori sincrono, in dissolvenza e in decomposizione come i corpi trucidati dal trapano in The driller killer. La sua New York è quasi sempre la stessa, una città dalle mille luci, ma anche fatta da altrettante ombre. Una città dionisiaca, popolata dai reietti della società: prostitute, barboni, spacciatori, cattivi tenenti, delinquenti di mezza tacca e killer spietati. Il risultato, allora, è un cinema tossico che proietta gli incubi, le angosce e le allucinazioni di un’intera epoca, quella post-Vietnam, che deve convivere con la consapevolezza e le paranoie di un’incomunicabilità delle persone capace di produrre un processo irreversibile nella società stessa.

Il sublime in questo modo è nei bassifondi, negli angoli bui delle strade, nei vicoli lerci e fumosi, negli appartamenti fatiscenti dell’East Side, nelle notti ammuffite con i loro colori lividi e velenosi. Storie di ordinaria follia, dalla “trilogia dei serial killer metropolitani” (The driller killer, L’angelo della vendetta e Paura su Manhattan) al tema biblico di Mary. I suoi film sono spesso priva di luce solare, come a volerla considerare una sorta di redenzione a cui i suoi personaggi, invece, possono accedere solo attraverso la morte.

Un tema costante del suo cinema, allora, è quello del Male che, a differenza dell’impostazione onirico-ermatica di Lynch e quella fondata sulla carne di Cronenberg, è una presenza metropolitana, una visione lisergica e allibente creata dal sistema o dalla mente, ma anche dall’incapacità di entrambe nel dare risposte concrete e confortevoli alle problematiche della vita. Ecco allora l’emergere di altre due costanti: il terrore della discesa agli inferi e il confronto violento con i miti cattolici “perché un vero credente non può scrivere un film come Il cattivo tenente”. Ma è anche vero che Fratelli è un film perfettamente in linea con la parola di Dio: “Il Papa l’avrebbe potuto scrivere”. O addirittura come in Mary dove la religione stessa è il motore della ricerca. Ferrara in questo modo offre al pubblico le sue stesse domande e i suoi dubbi di sempre. In The driller killer, seppure con una struttura da slasher anni Ottanta, non c’è una reale spiegazione alla furia omicida del protagonista (lo stesso Ferrara). È teorizzabile, ma senza certezze, come in Blackout con l’atto purificatorio nel mare, con l’orgia di sangue in L’angelo della vendetta o addirittura nel personaggio del regista in Mary ucciso interiormente dalla sua stessa ricerca. E allora chi siamo? Dove andiamo? Perché andiamo? Insomma, domande gnostiche messe in scena attraverso un cinema impressionista e notturno, violento e senza eroi come il buon vecchio western crepuscolare. Anche nel suo ultimo film, Go go tales, ritornano gli interrogati, le vicende e i luoghi di sempre, sinonimi di una ricerca non ancora appagata: “Ci vuole coraggio per camminare nella verità”.

Ma il suo cinema è anche violento perché “la violenza è un modo per affrontare i problemi e venirne a patti. È una metafora”. Come ricorda una battuta dell’horror The addiction: “La nostra droga è il Male e la nostra propensione al Male risiede nella nostra debolezza. Non è cogito ergo sum, ma pecco ergo sum”. Ecco allora i tre elementi importanti per comprendere al meglio il tema religioso presente nel cinema di Ferrara e in generale la sua poetica: Male, debolezza e peccato. Il Male crea la debolezza e il peccato. La debolezza crea una società terrorizzata e piena di paranoie. Il peccato, invece, genera uomini strozzati da un mondo in cui il Male con le sue debolezze ha messo le radici. A partire dal basso (periferie ecc).

“Me ne frego se i miei i film turbano le casalinghe di Beverly Hills. Sono un cazzo di cattolico e nessuno mi può uccidere” e come direbbe David Cronenberg: “Niente è vero, tutto è permesso”. Infatti, se ci sono degli autori che con Ferrara hanno punti in comune Cronenberg è uno dei primi. Ma anche Lynch, Mann e soprattutto Scorsese. Mentre Cronenberg ha paura per il genere umano, del demone sotto la pelle, di un Male indicibile (la sua “materia”), quello seppellito nell’anima degli uomini e sempre pronto a riemergere in superficie come nell’ultimo A history of violence, Lynch è tormentato dalla normalità, dalla perversione del genere umano, dall’erba del vicino. Il paradosso è esplicato nel suo secondo film, The elephant man, “la storia di un individuo considerato mostro all’esterno, ma dentro un uomo normale e stupendo”. Mann, invece, vuole cogliere i colori impressionisti della notte, raccontare di strade violente in cui l’uomo spesso si ritrova a sfidare se stesso. Ma è Ferrara più di tutti gli altri a calarsi dentro il Male e la metropoli. L’assimila. Dai suoi esordi fino a Kings of New York o Il nostro natale, senza dimenticare la metafora vampiresca di The addiction. E allora è vero quello che ama sempre ricordare: “L’ultima delle mie preoccupazioni è sapere chi andrà a vedere il mio film”.

In occasione della presentazione alla Casa del Cinema del suo ultimo film, Go go tales, abbiamo intervistato Abel Ferrara che ci ha raccontato anche del suo prossimo progetto.

Se penso a The driller killer, Kings of New York o ll nostro natale immagino il suo cinema come una sorta di apologia su un’America criminale, mentre con Mary ad argomenti più trascendentali, intimi. In Go go tales, invece, cosa c’è?

Finché non lo facciamo vedere di fronte ad un pubblico, chi lo sa cos è (ride)! Poi il fatto di lavorare con attori con cui ho già fatto altri film, persone come Matthew Modine o Asia Argento, mi fa essere fiducioso. Comunque è difficile da dire. Diciamo che non è un film di criminali, ma ci sono comportamenti da criminali.

Perché ha scelto la commedia?

Quando fai un film da novanta minuti pensi in termini di dramma o di genere. Come The addiction è un film horror e Il cattivo tenete un poliziesco. Quindi quanto sarà divertente non lo so. E magari non sarà più divertente di film che invece pensiamo siano seri. Quando fai un film horror pensi se farà paura abbastanza, mentre per un film d’azione se ci sarà abbastanza violenza. Alla fine, però, credo non ci siano grosse differenze perché finisci sempre a fare ciò che tu vuoi fare.

Quanto c’è, invece, di Abel Ferrara in Go go tales?

Tutto quello che posso metterci. Ognuno ha il suo ego e io lotto per il mio.

E cosa ci dice del suo prossimo progetto, Pericle il nero, tratto dall’omonimo libro di Giuseppe Ferrandino?

Il produttore mi ha portato il libro e mi è piaciuto molto. Se riusciremo a catturare quello che è riuscito a dire Ferrandino potremmo realizzare qualcosa di bello. Il fatto è che ci sono cento modi per farlo, ma se facciamo un film da un libro…facciamo il libro. Se prendo l’idea di qualcuno, la prendo tutta non una sola parte. Nel cast, invece, ci sarà Scamarcio che viene dal sud e ha capito il personaggio. Mi trovo bene con lui.

Ormai il cinema è invaso dalle nuove tecnologie. Quanto possono influenzare il suo lavoro e il cinema in generale?

È più un fatto di comunicazione tra individuo e individuo. Una volta ho visto 2001 Odissea nello spazio in un cinema con uno schermo gigante e nuovissimo. Un tempo invece tutto era più ridimensionato e c’era il bianco e nero. Penso che comunque, pro e contro, sia un’esperienza (ride).

La ringraziamo per la sua disponibilità e buona fortuna per il suo film.

Grazie a voi e complimenti per il nome della rivista (ride).

Giacomo Ioannisci

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