Non passa di certo inosservato Carlo Delle Piane, un ometto gracile dal ben noto “profilo dantesco”, una presenza che più ci si avvicina, più si fa intangibile e al contempo magnetica.
L’attore esordisce a soli dodici anni sul set di Cuore (1948), per la regia di Duilio Coletti e con un interprete d’eccellenza, Vittorio De Sica, nel ruolo del maestro Edmondo Perboni.
Da quel momento farà per sempre cinema. Una fonte preziosa. Le sue parole scorrono come fotogrammi in bianco e nero.
Fu molto amato da Aldo Fabrizi (lo ricordiamo nelle vesti di “Pecorino” ne La famiglia Passaguai, 1951) e condivise il set con un Alberto Sordi esordiente in Mamma mia, che impressione! diretto da Roberto Savarese nel 1951. Ma lavora anche con registi del calibro di Monicelli e Steno in Guardie e ladri (1951) tanto che Steno lo vuole successivamente in altri suoi lavori (L’uomo, la bestia e la virtù, Un americano a Roma, Totò contro i 4).
E’ diretto da Luigi Zampa (Ladro lui, ladra lei, 1958), da Eduardo De Filippo in Fortunella con Sordi e Masina e lavora con Sergio e Bruno Corbucci, Roman Polanski (Che?) e Carlo di Palma (Teresa la ladra, con la eccezionale Monica Vitti). E siamo nei primi anni Settanta, alle spalle ha già venticinque anni di carriera. Ma la svolta artistica deve ancora arrivare. Fu nel 1977, infatti, che ebbe inizio un sodalizio fecondo sotto molteplici aspetti con i fratelli Antonio e Pupi Avati. Carlo Delle Piane si distacca da quella comicità che aveva caratterizzato il suo personaggio nella pletora di film di stampo commerciale (tenendo conto delle numerose eccezioni suddette), e dà vita a ruoli sempre più complessi e sfumati da un punto di vista psicologico. Nel grottesco Tutti defunti… tranne i morti (1977) da semplice caratterista veste con eccellente agio i panni del timido piazzista Dante. Nel 1983 merita il Premio Pasinetti alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, e nel 1984 il Nastro d’Argento per Una gita scolastica, sempre di Pupi Avati (che vinse per quella stessa pellicola il Nastro d’Argento come miglior regìa).
Venezia non lo trascura neppure tre anni dopo, quando Pupi Avati lo trasforma nell’ infimo industriale Santelia in Regalo di Natale (1986).
Tra i film più recenti: Nessun messaggio in segreteria (2005) di Paolo Genovese e Luca Miniero e Tickets (2005) di Ken Loach, Abbas Kiarostami ed Ermanno Olmi.
Come nasce la tua devozione al cinema?
Nel 1948, a dodici anni e fu per caso. A scuola arrivò Duilio Coletti e disse che cercavano volti giovani per Cuore, il film tratto dall’omonimo libro di De Amicis. Fu così che interpretai uno dei tanti bambini, Garoffi. I maestri erano interpretati da Vittorio De Sica e Maria Mercadèr. Il mio secondo film, invece, è stato Domani è troppo tardi di Léonide Moguy.
Cosa significa per te lavorare con grandi registi?
Da sempre ho vissuto il cinema in modo istintivo, animalesco. Giocavo a calcio e quando toccava a me dicevo le mie battute intonate. Era un modo di fare cinema diverso, più genuino. Quasi un gioco.
I primi anni ero troppo bambino per capire fino in fondo il lavoro e il valore dei grandi cineasti con cui lavoravo. Ci volle del tempo perché iniziassi a vivermi il cinema come una necessità, soprattutto quando iniziai a provare il desiderio di mettermi in gioco non più solo come caratterista. Molti approfittavano della mia faccia strana, particolare. Ma non ho mai sofferto di questo.
Una persona a cui sei molto legato è Aldo Fabrizi. Ci ricordi questo grande uomo, purtroppo troppo presto dimenticato?
Bellissimi ricordi. Curiosi. Lui amava molto cucinare, pensava anche a mangiare, ma soprattutto godeva per l’entusiasmo delle persone che invitava a mangiare. Io andavo spesso a casa sua. Aveva una cucina enorme. Era specializzato nei primi piatti: soprattutto pasta alla matricina e carbonara. Era un rito, ne godeva prima di tutto il profumo, ma per un paio di volte si alzò dopo aver goduto di questo piatto straordinario, buttò tutto e cucinò di nuovo. Sapeva essere molto pignolo nella cucina. Partimmo insieme per Toronto negli anni Sessanta con lo spettacolo Rugantino (dove Nino Manfredi interpretava Rugantino, Aldo Fabrizi Mastro Titta ed io Bojetto, il figlio di Mastro Titta).
Aldo Fabrizi portò con sé per l’occasione un baule pieno di pasta, pancetta e tant’altro. Quasi sempre dopo gli spettacoli si cenava insieme. Lui si svegliava presto ed ogni mattina squillava il telefono, ovviamente era Fabrizi: ”Ahò. Stasera che voi magnà?”. Riuscì a farmi ingrassare.
Una altra volta, invece, andammo alle terme di Fiuggi e quando fu colpito da un forte getto d’acqua mi gridò: “Ahò! Carlo! Carlo! Me so perso le mutandee!!”.
Lo ricordo con affetto e stima, era simpaticissimo ma non amato: ha sempre detto la verità. Questo per me rappresenta il suo più grande insegnamento.