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Taxidrivers Magazine

“Go tell the Spartans” & “Who’ll stop the Rain”

Tutto il cinema degli anni settanta. Rubrica a cura di Paolo Gilli

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Il battesimo per il genere dei Vietnam movies non è che fosse andato benissimo, grazie al demente The Green Berets (Ray Kellog, Mervyn Leroy, 1966) con protagonista John Wayne. Un vero guilty pleasure, ma con il risultato che per quasi dieci anni nessuno a Hollywood osa avvicinarsi al tema (anche perché la guerra, con il passare del tempo sempre più impopolare, era ancora in pieno corso), tralasciando ovviamente la pura exploitation come Nam’s Angels aka The Losers (Jack Starrett, 1970), Deathdream (Bob Clark, 1972), My Friends need Killing (Paul Leder, 1976) o Rolling Thunder (John Flynn, 1977).

Va da se, che il conflitto è lo sfondo, dichiarato o no, di moltissimo cinema degli anni Settanta, da Taxi Driver (Martin Scorsese, 1976) a The Big Wednesday (John Milius, 1978) e The Return of the Caucasus Seven (John Sayles, 1979). Il primo però ad affrontare il tema in maniera diretta è stato il grande Elia Kazaan con The Visitors (1972), che è anche l’apripista per una serie di pellicole incentrate non tanto sulla guerra ma sugli effetti che ha avuto in patria, in particolare sui reduci e i familiari di quest’ultimi. Tra queste possiamo citare Heroes (Jeremy Kagan, 1977), Tracks (Henry Jaglom, 1977) e Coming Home (Hal Ashby, 1978).

Poi ci sono le pellicole che raccontano il conflitto (e ovviamente molto di più) come i capolavori assoluti Deer Hunter (Michael Cimino, 1978) e Apocalypse Now (Francis Ford Coppola, 1979), ma anche pellicole “minori”, come l’interessante The Boys in Company C (1978, Sidney J. Furie, che anticipa non poco il Full Metal Jacket di Kubrick). Questo per quanto riguarda gli anni Settanta.

Qui rivolgiamo la nostra attenzione a due film del 1978, Go tell the Spartans (Vittorie perdute) di Ted Post e Who’ll Stop the Rain (I guerrieri dell’inferno) di Karol Reisz.

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Ted Post viene ricordato soprattutto per i due film girati con Clint Eastwood (Hang ‘em high e Magnum Force) e il primo seguito dell’originale pianeta delle scimmie. Beneath the Planet of the Apes (1970). Venendo dalla televisione (dove ha praticamente diretto episodi per ogni serie western di successo degli anni Cinquanta e Sessanta), i suoi film hanno una messa in scena di impronta classica, adattabile alle esigenze. Il suo film più personale rimane sicuramente Go tell the Spartans. All’epoca ebbe solo una distribuzione limitata (e rimane di non facile reperibilità), ma fu molto apprezzato dalla critica, anche se largamente ignorato dal pubblico pagante. Negli anni si è trasformato in un piccolo classico del genere.

La sceneggiatura di Wendell Mayes circolava già da qualche anno quando cade nelle mani di Post, che riesce a inoltrarla a Burt Lancaster. L’attore all’epoca era in convalescenza da un’operazione al ginocchio (nel film infatti, zoppica) e dopo aver letto lo script se ne innamora immediatamente, tanto da mettere soldi di tasca propria, quando la produzione sforerà il budget. Il film, rispetto ad altre pellicole dello stesso periodo si concentra sì sulla guerra, ma nel 1964, quindi la fase iniziale del conflitto, quando la presenza americana veniva ancora eufemisticamente chiamata “di avviso militare”. L’escalation, lo sbarco massiccio di truppe americane e quindi totale coinvolgimento, non avviene prima del ’65. La vera attenzione mediatica e le manifestazioni seguiranno da lì a poco.

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Al Maggiore Baker (Lancaster), veterano con alle spalle due guerre, viene affidato la missione di difendere e mantenere una abbandonata postazione persa nel nulla. Un decennio prima nello stesso posto era avvenuto un massacro di 300 (da lì il riferimento agli spartani del titolo) soldati francesi durante la prima guerra dell’Indocina. Baker ha a disposizione pochi mezzi e ancora meno uomini, quasi tutti novellini, che non hanno mai visto uno scontro a fuoco, oltre alle poco affidabili truppe sudvietanamite e un gruppo di mercenari locali. La difesa della postazione dai vietcong si trasforma ben presto in un classica situazione di assedio. Alla fine sarà solo un uomo a sopravvivere, il caporale Courcey (il sempre pessimo Craig Wesson), un giovane idealista che vede scontrarsi la sua visione del mondo con la nuda e cruda realtà…

Go Tell the Spartans non convince tanto per la sua trama, i personaggi e tanto meno per il suo scontato messaggio antibellico. Il suo punto di forza è di mostrare in maniera realistica la totale irrilevanza della presenza degli americani, le assurdità (tattiche) e contraddizioni che l’hanno contraddistinta dall’inizio fino all’autodistruzione, contro un nemico sempre sottovalutato. Per chi fosse interessato all’argomento è consigliata la lettura di Vietnam, una sporca bugia del premio Pulitzer Neil Sheehan.

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Karel Reisz, documentarista e membro fondatore del movimento inglese del Free Cinema, ha dato il suo contributo alla New Hollywood con due splendidi pellicole, The Gambler (1974) e questo Who’ll stop the Rain (dalla canzone omonima dei Creedence Clearwater Revival), tratto dal libro Dog Soldiers di Robert Stone.

La guerra del Vietnam è al suo culmine. In una Saigon apocalittica, John Converse (Michael Moriarty), ex corrispondente di guerra contatta il suo vecchio amico Ray Hicks (Nick Nolte), per affidargli un pacco di eroina destinato a sua moglie. Di ritorno a San Francisco, Hicks incontra Marge (Tuesday Weld), la moglie di John, all’oscuro di tutto. Chi invece è informato su tutto è l’agente corrotto Antheil (Anthony Zerbe) della DEA che con l’aiuto di due scagnozzi (Richard Masur e Ray Sharkey, non è mai del tutto chiaro in che misura se i due appartengono all’agenzia), iniziano a dare la caccia a Hicks e Marge. Da San Francisco a Los Angeles, fino alla conclusione in Messico…

Diciamolo subito Reisz tira fuori un gran film. Dalla sceneggiatura, dello stesso Stone, alla messa in scena, alla prestazione dell’intero cast, Who’ll stop the Rain convince su tutta la linea. Nolte, dopo una manciata di ruoli minori, aveva sfondato l’anno precedente con il bel The Deep (1977, Peter Yates), ma qui la sua prova convince pienamente. Il personaggio di Hicks, ex marine, appassionato di Nietzsche, Buddismo Zen e arti marziali, gli calza a pennello.

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Who’ll stop the Rain racconta il crollo della controcultura in America, e la totale sfiducia nelle autorità. L’ottimismo degli anni Sessanta lascia spazio alla disillusione e alla paranoia post Manson e agli eventi degli anni Settanta soprattutto lo scandalo Watergate. In questo sta la metafora del pacco di eroina, la droga che uccise l’innocenza del movimento hippie. La corruzione di un ideale e di un periodo apparentemente lontanissimo, anche se è passato appena qualche anno, di cui rimangono solo i fantasmi in un deserto. Attraversato da un pessimismo di fondo, al limite del nichilismo, Who’ll stop the Rain, rimane uno dei classici del genere. Da recuperare assolutamente.

Paolo Gilli


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