Cercando definizioni di cinema d’autore si arriva a Truffaut e a un suo articolo del 1955 intitolato
“Ali Babà e la politica degli autori”, dove Ali Babà è il titolo di un film di Jacques Becker. Continuando la ricerca si trovano addirittura liste di Autori e, invariabilmente, Jacques Becker non c’è. Già questo lascia comprendere quanto nel passaggio da “politica degli autori” a “cinema d’autore” si sia compiuto un tradimento.
La prima volta che ne sentii parlare facevo il liceo, una professoressa illuminata organizzava cineforum dove campeggiavano invariabilmente i film di Bunuel, Bergman, Truffaut. A quell’epoca “cinema d’autore” mi sembrava un sinonimo di cinema non commerciale.
Giunto a Roma, finii per bazzicare una nota videoteca, punto di riferimento per cinefili, il sottotitolo del suo nome era: “cinema d’autore” e nell’insegna c’era il fotogramma di un celebre film di Michael Cimino, a significare che in quella definizione rientravano anche quei grandi film statunitensi in grado di coinvolgere il grande pubblico.
Quando con alcuni amici fondammo un’associazione che voleva fare diffusione cinematografica, spesso usavamo la formula “cinema d’autore” per farci comprendere ma col passare del tempo, entrando nel dispositivo cinematografico, cominciai a provarne sempre più insofferenza. Se al tempo di Truffaut poteva essere uno strumento di rottura e di inclusione di autori ai margini, oggi che Bunuel, Bergman e lo stesso Truffaut sono mostri sacri quella definizione rischia di diventare un tempio.
Ma non ci servono genuflessioni bensì continui atti di rottura per uno stato di rivoluzione continua.
Bunuel e Bergman continuo ad amarli insieme a Wakamatsu, Miyazaki e Eastwood ma il loro non lo chiamo più “cinema d’autore”, lo chiamo cinema, buon cinema, arte cinematografica.
Resta da trovare un nome al resto, al cinema d’intrattenimento, commerciale, del product placement, spesso fatto con soldi pubblici. Ma questa è già un’altra storia.
Pasquale D’Aiello