“Il denaro è come il sangue: se circola è vita/Il denaro è come Cristo: se lo condividi ti benedice”.
Non so esattamente quando Jodorowsky abbia scritto questi versi, però se ne può ben capire la motivazione, dato che nella conferenza stampa seguita alla proiezione, il maestro cileno si è prodotto in un’arringa contro il cinema commerciale, riproponendo, con un’azione a parere di chi scrive un po’ di retroguardia, la vecchia distinzione tra film di intrattenimento e film d’arte. Si, perché per realizzare La danza della realtà, Jodorowsky ha dovuto attendere ben 23 anni, proprio per la difficoltà di racimolare il denaro necessario, dovendo addirittura finanziare di propria tasca l’operazione. Ma, per fortuna, il risultato è ottimo.
L’infanzia, il piccolo paese d’origine, il padre, la madre, i personaggi che gravitavano intorno, tutto è riproposto attraverso una lente immaginifica che deforma i fatti del passato, tramite un processo retroattivo che riformula ciò che è stato in funzione del presente. E’ come se l’attuale illuminasse ciò che era in potenza, e l’intervento dell’autore è poetico proprio perché rielabora liberamente i fatti accaduti, per cui ciò a cui assistiamo è, in effetti, una danza, scandita da una musica sapientemente orchestrata. E la voce del regista ‘puntella’ lo scorrimento della melodia, pone gli accenti, ma non è mai didascalica, anzi amplifica la dimensione surreale del film, cullando, con tono pacato, baritonale, lo spettatore, testimone di una sarabanda di eventi che si muovono scomposti ma sempre piacevoli sullo schermo. E’ una coscienza-flusso quella di Jodorowsky, che scardina il ciclo cronologico del tempo a favore di una ‘durata’ da cui sgorgano i sentimenti del passato, e tutti gli avvenimenti, anche quelli più tragici, sono stemperati dalla sua calda voce che avvolge il tutto, fornendo un approdo tranquillo a ciò che sembrerebbe destinato a concludersi dolorosamente. Le trovate poetiche disseminate durante il corso del film donano un’atmosfera magica che, nonostante le oltre due ore di durata, non perde mai la sua forza, in quanto la narrazione non si sfilaccia, ricca com’è di espedienti che destano sempre l’attenzione. C’è il padre stalinista che vorrebbe uccidere il dittatore Ibanez, ma quando ne avrebbe l’occasione non ci riesce (le mani si paralizzano), anzi scopre, avvicinandolo, di essergli molto affine; la madre, che, come ci confida il regista, avrebbe sempre voluto fare la cantante, e si esprime solo tramite gorgheggi (il seno prosperoso e la statura giunonica ricordano non poco la tabaccaia di Amarcord); gli abitanti della piccola cittadina mutilati dalle esplosioni nelle miniere, che rievocano inevitabilmente il cinema disturbante di Tod Browning; questi e tantissimi altri personaggi popolano una fiaba barocca, che non concede pause, se ne infischia della correttezza estetica e politica, per poi prendersi gioco di sé con un’auto ironia liberatoria.
Insomma, Jodorowsky è tornato dopo tanto tempo, ma gli anni passati non hanno scalfito la sua fantasia, la capacità di produrre immagini grottesche, decise, ma anche gioiose, poetiche, dotate di una forza che riesce sempre a penetrare l’occhio di chi guarda, ferendolo, accecandolo: il regista sa fornire una rinnovata prospettiva attraverso cui ricomporre i brandelli di un cinema che pare sempre sull’orlo del collasso. Uno sguardo, il suo, ancora acceso, vivido.
Luca Biscontini