Ambientato durante il periodo immediatamente precedente al crollo del regime comunista, questo film, premiato al festival di Cannes con la Palma d’oro, potrebbe rappresentare il manifesto della rinascita del cinema rumeno.
Ambientato durante il periodo immediatamente precedente al crollo del regime comunista, questo film, premiato al festival di Cannes con la Palma d’oro, potrebbe rappresentare il manifesto della rinascita del cinema rumeno, con la sua schiera di giovani e talentuosi autori (Namescu, Porumboiu), ansiosi di interpretare e restituire il clima politico, sociale e umano di un paese rimasto ancora troppo ai margini, seppur formalmente integrato entro i salvifici confini dell’Unione Europea.
Il minimalismo, l’essenzialità, il rifiuto d’orpelli scenici e letterari costituiscono i tratti principali di questa pellicola che riesce con incisiva naturalezza a far immergere lo spettatore nel dramma vissuto dai protagonisti; ciò grazie a un lucido lavoro di sottrazione capace di sfrondare il superfluo e, contemporaneamente, di agevolare un processo d’autonomizzazione dell’evento rappresentato. Piani-sequenza, voci fuori campo e montaggio interno all’inquadratura collocano questo film in una dimensione quasi documentaristica che, alternandosi con una sobria ricognizione umana, si trascende verso una poetica asciutta ma efficacissima. Il tema dell’aborto, come il regista Cristian Mungiu afferma, diviene il pretesto per innescare una fenomenologia delle emozioni e dei sentimenti attraverso cui sottolineare l’importanza della modalità delle manifestazioni degli eventi.
C’è chi ha riscontrato in questo lungometraggio una certa eco del nostro neo-realismo, ma queste etichette appaiono ormai troppo consunte per classificare adeguatamente un cinema che, seppur ancor legato nelle intenzioni a certi schemi, ha già ampiamente compreso l’impossibilità di riprodurre fedelmente il reale, facendo del simulacro e dell’immagine il sostrato su cui fondare una nuova consapevolezza espressiva.
Ottima è l’interpretazione della protagonista, Anamaria Marinca, abile nel prodursi in una recitazione sempre contenuta, ma proprio per tale ragione capace di non costituire un intralcio al processo d’immedesimazione dello spettatore. Particolarmente degna di nota è inoltre la sequenza in cui Otilia (Anamaria Marinca) si affanna a cercare il luogo adatto ove occultare il feto appena espulso dal ventre dell’amica in seguito a un aborto clandestino: l’empatia che si prova nei suoi confronti è tale da costituire l’apice emotivo del film, e tutto ciò senza dialoghi, sussurri o melodie giustapposte a fini melodrammatici.
Luca Biscontini
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