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Mutilazioni Sociali

“NO – I giorni dell’arcobaleno” di Pablo Larrain

Letture filmiche su una società in trasformazione. Rubrica a cura di Antonio Pettierre

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Con NO – I giorni dell’arcobaleno, il regista Pablo Larrain chiude la trilogia sul Cile di Augusto Pinochet con un film che affronta la corsa referendaria che avrebbe dovuto confermare nel 1988 la dittatura militare.

Nelle intenzioni del giovane regista se con Tony Manero ha raccontato il periodo più buio della società cilena sotto il regime e con Post Mortem la sua nascita, con NO mette in scena la sua fine, o per meglio dire la sua trasformazione, visto che con la vittoria del No al referendum da parte della coalizione di centro-sinistra, Pinochet non fu più il presidentissimo, lasciando spazio a un debole regime democratico, dove la sua ombra continuò a influenzare la società cilena fino oltre la sua morte.

Del resto, Larrain era un ragazzino (è nato nel 1976) quando con la vittoria del No al referendum una parvenza di democrazia ritornò in Cile. Il suo quindi è un cinema di analisi più che di testimonianza, dove la messa in scena della vita sotto la dittatura è una rappresentazione di un modo di concepire la quotidianità secondo stilemi culturali consumistici.

Visione catodica della società dello spettacolo

Non a caso Pablo Larrain per descrivere l’apice della dittatura sceglie la vita di un attempato ballerino sottoproletario il cui unico scopo è quello di partecipare a una trasmissione televisiva dove gareggiano i sosia di Tony Manero (nell’omonimo primo film della trilogia), il protagonista Raul Peraltra si annichilisce in un altro da sé, in un’icona dello spettacolo globale, come ha teorizzato il filosofo francese Guy Debord  e “la realtà sorge nello spettacolo e lo spettacolo è reale”(1).

Molto più che con Post Mortem – opera molto rarefatta e con un côté filosofico suggellato da un finale anche un po’ ambiguo – NO ha uno stretto collegamento con Tony Manero.

Larrain va oltre e arriva a girare il film in formato 4:3 e con macchine da presa analogiche, questo non solo per facilitare la messa in serie con filmati originali dell’epoca e per rendere la messa in scena più filologicamente corretta, ricreando un mondo degli anni 80 preciso in ogni dettaglio, ma anche per abbattere la quarta parete cinematografica e farci entrare all’interno dei meccanismi televisivi, in particolare quelli pubblicitari.

Per mettere in scena in sostanza lo spettacolo neoliberista che Pinochet aveva imposto a tutti i cileni, importando il modello americano “lo spettacolo, compreso nella sua totalità, è nello stesso tempo il risultato e il progetto del modo di produzione esistente. (…) Nell’insieme delle sue forme particolari, informazione o propaganda, pubblicità o consumo diretto dei divertimenti, lo spettacolo costituisce il modello presente della vita socialmente dominante” (2).

Ecco allora che il punto di vista che Larrain utilizza è quello del giovane protagonista René Saavedra (interpretato da Gael García Bernal che rende bene l’aura un po’ attonita del personaggio), dipendente di un’agenzia pubblicitaria diretta da Luis Guzman (un camaleontico Alfredo Castro, attore icona di questa trilogia, avendo interpretato i protagonisti dei due film precedenti).

Saavedra è ingaggiato dal comitato promotore per il No come esperto di pubblicità e Guzman al contrario sarà ingaggiato ufficialmente dal governo di Pinochet come consulente della campagna per il Sì.

La descrizione del personaggio Saavedra viene messa in scena con elementi essenziali: divorziato da una donna dichiaratamente comunista, vive con il figlio e una governante in una villetta curata e piena di ogni comfort in un quartiere borghese della capitale cilena. Vissuto per anni negli Stati Uniti, ritorna in patria per fare un lavoro ben remunerato nel campo pubblicitario importando le tecniche ormai globalizzate della comunicazione di massa.

Tutta la diegesi si sviluppa su un duello mediatico tra il gruppo che prepara la campagna per il No capitanata da Saavedra, con pochi mezzi, molta fantasia, supportata da tutta la società culturale, sempre minacciata in modo violento e villano dal potere militare e dall’altro lato abbiamo la messa in scena dello strapotere di mezzi e apparato burocratico-militare della dittatura pervicacemente convinta che il referendum non sarà mai perso, o meglio che la sinistra (i comunisti) non lo vinceranno mai.

pablo larrain

In una forma metonimica Pablo Larrain narra il dietro le quinte delle campagna per raccontare un momento storico di un’intera nazione stanca di anni di violenza fisica e verbale, dove però la società neoliberista e consumistica era stata imposta.

Iterazione di tre spot pubblicitari: il mondo è merce

NO si sviluppa su direttrici di una globalizzazione incipiente dove il consumismo si era affermato.

Ci sono tre sequenze molto significative.

La prima è l’incipit dove Saavedra, insieme a Guzman, mostra uno spot televisivo di un prodotto – una bibita gassata – ai manager dell’azienda committente. Le sue parole sono di spiegazione per un futuro nuovo, un modo nuovo di vedere le cose, che i cileni meritano di avere nuovi prodotti alla portata di tutti, e poi fa partire il filmato.

La seconda sequenza l’abbiamo a quasi un terzo del film: qui c’è solo Saavedra che mostra lo spot della campagna televisiva per in No referendario di fronte al comitato politico composto da tutti i rappresentanti della coalizione che andava dalla democrazia cristiana ai comunisti (e infatti il simbolo è quello dell’arcobaleno con i colori di tutte le compagini politiche).

Il terzo è il finale dove, dopo la vittoria del No e la nomina del Presidente della Repubblica, Saavedra e Guzman sono di nuovo insieme, come se non fosse successo nulla nel frattempo, e mostrano uno spot su una nuova serie televisiva da lanciare.

Tutti e tre le sequenze sono girati nello stesso modo, Saavedra dice le stesse parole e mostra in sostanza sempre lo stesso spot, perché “a livello dei consumi, questo nuovo spirito è quello del cosiddetto capitalismo culturale. (…)” compriamo i prodotti “per ottenere quell’esperienza che ci forniscono, li consumiamo allo scopo di rendere la nostra vita piacevole e significativa” (3).

Quindi che sia una bibita, uno serie televisiva o la lotta per la democrazia tutto è merce, tutto è consumabile e come scrive Debord: “Lo spettacolo non canta gli uomini e le loro armi, ma le merci e le loro passioni. E’ in questa lotta cieca che ogni merce (…) realizza in effetti nell’inconscio qualcosa di più elevato: il divenire-mondo della merce, che corrisponde al divenire-merce del mondo. Così, per un’astuzia della ragione mercantile, il particolare della merce si logora combattendo, mentre la forma-merce va verso la sua realizzazione assoluta” (4).

Al giovane Saavedra quindi interessa riaffermare questa visione del mondo: per battere la dittatura di Pinochet bisogna utilizzare le stesse armi su cui la globalizzazione si fonda. In realtà, l’affermazione della democrazia non è altro che un contesto più consono alla società consumistica.

Saavedra quindi vende un sogno, un desiderio, quello della felicità, che si realizzerà in una democrazia in cui l’accesso al benessere è alla portata di tutti; Saavedra pubblicizza il sogno democratico necessario per ogni cileno (espandendo il concetto per ogni cittadino della società capitalista globalizzata) dove “più la necessità viene ad essere socialmente sognata, più il sogno diviene necessario. Lo spettacolo è il cattivo sogno della moderna società incatenata, che non esprime in definitiva se non il proprio desiderio di dormire” (5).

E quindi se NO di Larrain sviluppa il processo di creazione del sogno democratico e della sua affermazione in una società governata da una classe burocrate-militare, “la radice dello spettacolo è nell’economia divenuta abbondante, ed è da qui che vengono i frutti che tendono alla fine a dominare il mercato spettacolare, a dispetto della barriere protezionistiche ideologiche-poliziesche di qualsiasi spettacolo locale con pretese autarchiche” (6).

noscene (1)

Il pubblicitario come rivoluzionario della società mercificata

Saavedra riuscirà a far convergere tutta la coalizione di centro sinistra dietro la simbologia consumistica.

Nella seconda sequenza citata, durante la presentazione dello spot elettorale al comitato politico, solo la parte più ideologica rifiuterà la proposta definendola “una pagliacciata”, ma ormai il dado è tratto e in un mondo globalizzato dove le ideologie sono morte o morenti, “la tensione antagonista tra i diversi punti di vista è appiattita nella pluralità dei punti di vista indifferenti. Contraddizione perde così il proprio significato sovversivo: in uno spazio di permissivismo globalizzato, punti di vista incoerenti coesistono cinicamente” (7).

All’interno del gruppo creativo per la campagna per il No ci saranno alcuni che tenteranno di inserire le testimonianze di sopravvissuti alle torture del regime di Pinochet, oppure alle madri, sorelle, mogli a cui sono stati uccisi mariti, figli, padri, ma che Saavedra con appunto molto cinismo eliminerà oppure ridimensionerà sotto il continuo avvertimento che “questo non ci avrebbe fatto vincere”.

Non c’entrano più quindi i sentimenti o meglio c’entrano quelli legati a un forte desiderio di felicità autoindotto poiché “l’uomo separato dal proprio prodotto sempre più potentemente produce esso stesso tutti i dettagli del proprio mondo. Quanto più la vita è ora il suo prodotto, tanto più è separato dalla propria vita” (8).

C’è un’altra sequenza significativa che esplicita questo modo di sentire il mondo.

Proprio durante le riprese dello spot, il regista, prima di riprendere la scena bucolica di una famiglia felice durante un pic-nic, vuole togliere le baguette dal cesto del cibo perché è “pane francese che i cileni non conoscono e non mangiano”. Saavedra arrabbiato le rimette a posto e ordina di girare lo stesso la scena, tanto questo non avrebbe avuto importanza.

Qui abbiamo due visioni contrapposte della realtà.

Quella di Saavedra dove ormai la merce è un simbolo feticista e desiderabile tout court e poco importa se il pane è francese o cileno, se si usa il forno a microonde a Santiago o a New York. Per lui sussiste “il principio del feticismo della merce, il dominio della società attraverso cose sovrasensibili in quanto sensibili che si realizza in modo assoluto nello spettacolo, dove il mondo sensibile si trova sostituito da una selezione di immagini che esiste al di sopra di esso, e che nello stesso tempo si fa riconoscere come sensibile per eccellenza” (9).

Mentre per il regista dello spot, voce critica di Saavedra, è importante ciò che si rappresenta, ma ormai “ciò che è stato realmente vissuto è senza relazione col tempo irreversibile ufficiale della società (…) Questo vissuto individuale della vita quotidiana separata rimane senza linguaggio, senza concetto, senza accesso critico al proprio passato, il quale non si trova consegnato da nessuna parte. Esso non si comunica. E’ incompreso e dimenticato a vantaggio della falsa memoria spettacolare del non-memorabile” (10).

Il finale di NO con l’iterazione della presentazione dello spot pubblicitario quindi non è che la metafora di un “tempo irreversibile unificato” che “è quello del mercato mondiale, corollario dello spettacolo mondiale” (11).

NO – I giorni dell’arcobaleno quindi ha due livelli di lettura.

Da una parte la messa in scena della forza di pochi che combattono con le armi della persuasione un regime dittatoriale per l’affermazione di una società democratica; dall’altro lo scontro spettacolare non è altro che la metafora dell’affermazione di una società consumistica globalizzata dove le forme di governo diventano solo uno strumento per l’affermazione della merce in quanto tale, al di là di ogni sentimento individuale o collettivo.

Antonio Pettierre

Note.

  • Guy Debord, La società dello spettacolo, Massari editore, terza edizione 2008, pag. 45.
  • Guy Debord, cit., pag. 44.
  • Slavoj Zizek , Il trash sublime, Mimesis, 2013, pp. 52-53.
  • Guy Debord, cit., pag. 71.
  • Guy Debord, Op. cit., pag. 49.
  • Guy Debord, Op. cit., pag. 66.
  • Slavoj Zizek , Op. cit., pp. 56-57.
  • Guy Debord, Op. cit., pag. 54.
  • Guy Debord, Op. cit., pp. 55-56.
  • Guy Debord, Op. cit., pag. 129.
  • Guy Debord, Op. cit., pag. 124.

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