Chi scrive ha avuto parecchie resistenze iniziali nel vedere I corpi estranei di Mirko Locatelli.
É vero, c’è un bambino di appena un anno accompagnato dall’Umbria a Milano per essere operato di tumore al cervello ed è tutto più che realistico: il tragitto in macchina, il programma alla radio, l’ospedale, i gesti, le parole. Ma l’attenzione sul genitore, dalla prima inquadratura all’ultima, e il pudore di ogni scena rendono la narrazione avvincente e tollerabilissima, a dimostrarci che il dolore si può raccontare, anche quello più inenarrabile. Se nel ruolo del padre, Antonio, poi c’è Filippo Timi, con la sua voce profonda e la sua espressione intensa, ancora di più.
I corpi estranei La disperazione del protagonista
Antonio prega e impreca, accende ceri in chiesa, e si sfinisce di stanchezza lavorando ai mercati generali (perché ha bisogno di soldi o per stordirsi di fatica?); si avventa contro la macchinetta del caffé quando smette di funzionare e si addolcisce durante le telefonate alla moglie e al figlio Francesco rimasti a casa. Non accetta intrusioni d’altri in una disperazione che sente tutta sua e che non ha nessuna intenzione di lenire, di consolare, né tanto meno di condividere.
E non sarà certo l’incontro nei corridoi con l’adolescente Jaber (marocchino o algerino, che cambia per Antonio?), a fargli venire voglia di comunicare: gli arabi puzzano, parlano in modo incomprensibile, sono rumorosi. “Pregherò per tuo figlio”, gli dice Jaber, ma Antonio si lava le mani accuratamente dopo il contatto involontario con lui.
É un padre disperato, ripreso sempre senza cedimenti filmici, nel tempo reale e nelle azioni quotidiane: conta i soldi, fa il bucato, litiga con i lacci delle scarpe e con lo sciacquone del water, consuma i pasti da solo, in silenzio. Un’ordinarietà che si ripete, banale e straordinaria, e che sembra voler imprigionare il dolore: “Chiudiamo il dolore a chiave dietro una porta e lo lasciamo gridare e poi troviamo un modo per farlo uscire”, dice Mirko Locatelli. Di porte e finestre se ne vedono tante, nella Milano livida e piovosa che è la stessa di questi giorni autunnali. Filippo Timi è inquadrato spesso al di qua di una vetrata e di spalle. Bellissima l’immagine con in braccio il piccolo Pietro, loro due al buio e la luce di fuori a delinearne i contorni!
I corpi estranei Le riprese sul protagonista
Da subito colpisce vedere la nuca di Filippo Timi così spesso, fino a conoscerne presto ogni neo ed ogni piega della pelle. Non sono semplici soggettive; è qualcosa di spiazzante che ti lascia lì quasi senza fiato. Ed è sempre il regista a spiegarcelo come un “pedinamento per porre lo spettatore in una situazione di svantaggio, in modo che scopra gli spazi un attimo dopo il protagonista”, come a fare dei luoghi estranei che gli si aprono davanti “un terzo incomodo, un sorta di altro personaggio”.
Ogni tanto il padre si gira di poco, fino a scoprire il volto pallido, la barba trascurata, le occhiaie, l’espressione stravolta. È ruvido Antonio, con i suoi vestiti stazzonati, le magliette slabbrate, i maglioncini e le felpe da poco prezzo. E’ ruvido, ma di una tenerezza struggente quando parla con il piccolo Pietro e stabilisce una complicità tutta loro (“Se ci vedesse la mamma! Ma la mamma non c’è e mangiamo come ci pare!”). Filippo Timi per questo si è affidato davvero a un linguaggio spontaneo, ad una relazione autentica non prescritta dal copione. Ma il suo personaggio continua a rifiutare quella sana complicità che potrebbe arrivare dall’esterno, quella che il giovane Jaber gli propone a vuoto. Lui non la coglie, come potrebbe accoglierla! Preferisce affidarsi a gesti automatici, alle piccole compulsioni per tenere a bada ciò che non si può dire, che non si vuole dire.
Ci aspetteremmo, anche noi spettatori non sprovveduti, che ad un certo punto l’avvicinamento avvenga. Quando Antonio prende a pugni la macchina del caffè e compare Jaber pensiamo che sia lì per farla funzionare e invece no. Antonio dice tra sé “E ‘mo arriva pure l’arabo”, si allontana e l’arabo intasca la monetina.
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Una narrazione al di fuori dello stereotipo
Ci aspetteremmo quel po’ di stereotipo che alleggerirebbe la durezza dell’incomunicabilità. Ma questa storia senza eroismi e senza pietismi non prevede scappatoie, affinità o complementarità, né lente né improvvise, quelle a cui tanto cinema e tanta letteratura ci hanno abituati. Il protagonista cerca protezione nel suo mondo, senza aperture dall’inizio alla fine, neanche quella più scontata che i luoghi della terapia ci hanno raccontato. Bisogna aspettare l’ultima scena perché sia Antonio a chiamare Jaber con un brusco saluto e un brusco complimento. Solo a quel punto, le lacrime a lungo trattenute di Jaber possono farsi anche nostre.
I corpi estranei è stato prodotto da Strani Film, Officina Film, Deneb, in collaborazione con SAE Institute Milano