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Taxidrivers Magazine

“La nostra terra” di Giulio Manfredonia: nostra di chi?

“Ogni vita merita un film”. Rubrica a cura di Margherita Fratantonio

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Benvenuti al Sud! Non è proprio il caso di Filippo Gentile (Stefano Accorsi); nel suo cognome tutta la docilità, la timidezza, l’arrendevolezza, insieme all’ossessione maniacale per l’ordine e la  legalità.

Siamo alle solite, però: il personaggio venuto dal Nord, che vuole applicare le regole e si scontra con il modello meridionale, quello che prova sempre, in maniera più o meno creativa, ad aggirarle. Persino nella cooperativa pugliese Libera e futuro, nata per gestire le terre confiscate dalla mafia, non ci si stupisce per le tangenti e i raggiri. Peccato poi che nessuno dei soci abbia mai toccato la terra prima d’ora, a parte i veri contadini: Cosimo (Sergio Rubini) e Veleno, al quale sono stati sottratti terre e bestiame, appunto, avvelenandoli.

La storia scorre e si segue volentieri anche con qualche sorriso, ma alla fine resta la sensazione che sia rimasta un po’ troppo in superficie, nella caratterizzazione dei personaggi per niente rispettosa delle sfumature.  Ci sono:

 – L’immigrato nero, che fa l’immigrato nero e viene chiamato Fiocco di neve

– il disabile, che fa il disabile, ma non vuole glielo si dica

– l’ecologista bizzarra, Azzurra (Iaia Forte), che benedice ogni piantina di pomodoro prima di inserirla nel terreno, ringraziando le forze dell’universo

– il tamarro (Veleno) che non perde mai la sua volgarità nella parola e nel gesto

– l’omosessuale, anzi due, forse le persone più libere dalla maschera, ma ci penseranno gli altri, Veleno soprattutto, a confezionare per loro le battute più scontate

– lo psicotico, troppo consapevole della sua patologia, allucinazioni comprese

– e poi non poteva mancare lei, la bella ragazza, Rossana (Maria Rosaria Russo), a fare da co-protagonista perché l’uomo venuto da lontano se ne innamori e abbia una ragione in più per restare.

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Sarà lei a dire che le differenze vanno rispettate, ma era il caso di renderle così smaccate?  Una commedia dell’arte che stride con il messaggio di speranza del film, con il suo impegno di fondo, con una storia riconosciuta ufficialmente per l’impegno culturale. Comunque lodevole aver concepito una narrazione che parli di volontariato; gradevole l’auto-citazione del regista che verso la fine  fa arrivare il pulmino di Si può fare, dal quale scendono i disabili psichici del suo precedente film. Qui come nell’altro, ci si muove all’interno di un gruppo, ma Claudio Bisio lavorava con persone compromesse dal punto di vista mentale, giustificando l’uso dello stereotipo. Non per pregiudizio, ma perché davvero i clichè si possono meglio applicare alla malattia mentale, che si manifesta nella fissità dei gesti e dei ruoli, quelli che la persona ammalata si costruisce  per andare avanti, soffrire di meno, difendersi da se stessa e dal mondo.

Ne La nostra terra il personaggio più riuscito è quello di Cosimo-Rubini, un po’ mafioso e un po’ no, poi ancora pare di sì e poi ancora di no.  Legato autenticamente alla terra che gli hanno portato via da bambino, sa come trattarla,  conosce i segreti della tradizione, e non quelli proclamati da Azzurra, per cui inserire profondamente la pianta nella terra equivale a scendere nella profondità di se stessi, e via con altre sentenze new age e posture da illuminata. Sergio Rubini sa dare ad ogni scena un tocco di realtà e paradosso: estremo nel suo dialetto stretto stretto, imparerà molto dalla cooperativa, rimanendo sempre stesso. Non ha bisogno di esplicitare il suo processo interiore; dicono di più  gli sguardi intensi nel volto vissuto, qualche lacrima nascosta, il ripiegamento su se stesso delle ultime scene.

Stefano Accorsi, invece,  è costretto a ingurgitare gocce su gocce di tranquillanti per rendere l’ansia, sostituite poi dal vino per esprimere il cambiamento. Dovrà persino fare a botte, in un rito iniziatico voluto da Cosimo che vuole insegnargli come difendersi dal boss. Anche qui una relazione  maschile vista tante volte: prima ci si azzuffa e poi se ne ride, complici.

E infine, la terra, che film recenti come In grazia di Dio di Edoardo Winspeare e Le meraviglie di Alice Rohrwacher ci hanno fatto avvertire  in tutta la sua potenzialità e bellezza. Certo, il film di Giulio Manfredonia è una commedia e non gli si può chiedere la stessa intensità di chi racconta la campagna come luogo da cui fuggire (Le meraviglie) o a cui tornare (In grazia di Dio). E non c’è, nell’avventura sprovveduta della cooperativa, il coinvolgimento della famiglia o il senso del riscatto; non lo stupore degli occhi adolescenziali di Gelsomina (Le meraviglie), né lo sguardo indurito di Adele (In grazia di Dio). E neanche quelle scene lunghe e silenziose che della natura, se pure non sempre amata, ci restituiscono la magia, il mistero, il fascino aspro della quotidianità.

Evidentemente non era intenzione di Manfredonia incantare e coinvolgere lo spettatore con uno spazio mimetico che sottolineasse le emozioni dei personaggi, impegnato nella rappresentazione delle loro difficoltà relazionali e ambientali. Dice di aver visitato più cooperative di terre confiscate alla mafia prima del film, e può essergli servito a raccontarne gli sforzi, le contrarietà, il coraggio, a concludere comunicando fiducia, nonostante tutto.

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Dubitiamo, però, che i gruppi di Libera siano costituiti davvero da persone così rigide psicologicamente, e così raccogliticce, e che la loro scelta sia fatta per esclusione come quella degli ingenui volontari pugliesi:

– l’immigrato non ha un lavoro migliore a cui rinunciare

– Veleno non ha niente da perdere dopo che gli hanno distrutto proprio tutto

– Azzurra ha trovato il giusto contenitore per la sua nevrosi ambientalista

– il disabile può concedersi un’ esperienza di integrazione non facile da trovare, altrimenti

– lo psicotico cerca nel gruppo l’accoglienza che gli sarà negata altrove

– persino la bella Rossana ha motivi di vendetta personale per la sua dedizione alla causa

– La scelta dei due omosessuali, uno dei quali cuoco raffinato, e quindi grasso (così c’è un altro motivo di derisione) sembra più trasparente. Ma, unita a quella degli altri, pare volerci suggerire che l’omosessualità sia ancora un problema al Sud, tanto da desiderare un gruppo di supporto e accettazione.

Nonostante questo limite di fondo, La nostra terra lo si vede volentieri, non fosse altro per l’interpretazione di Sergio Rubini, che rende bene, dall’inizio alla fine, l’ambiguità richiesta al suo personaggio; non a caso solo lui investe tutto se stesso nella cooperativa e sulla terra, lui solo vive in pochi mesi il dramma di tutta la sua vita. E, rispettando i toni  della commedia, ci fa intuire, dietro la ruvidezza delle parole, la sincerità  nella sua doppiezza. In un conflitto che fa impallidire quello di  Stefano Accorsi, per il quale restare e partire è una continua oscillazione, che si risolve in maniera affrettata e poco convincente.

Margherita Fratantonio

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