Venezia 71: “Near Death Experience” di Benoit Delépine e Gustave Kervern (Orizzonti)
Probabilmente il progetto più fragile nella filmografia dei cineasti per le scelte registiche minimali, per la riduzione della narrazione a un monologo interiore e per aver affidato questi due punti a un protagonista non-straordinario, “Near Death Experience” è senz’altro l’opera più ardimentosa e affrancata da ogni logica di produzione, scrittura e distribuzione mai realizzata dal duo francese
Dissacrante, cinico, anarchico, onirico, poetico, funambolico, filosofico, libero. Il cinema della coppia artistica Benoit Delépine e Gustave Kervern ha il suo inconfondibile e poco rassicurante marchio di fabbrica, rintracciabile per nostro diletto anche nell’ultima coraggiosa esperienza-viaggio all’insegna del nichilismo. “Paul, davvero, tu parli troppo e non ti suicidi abbastanza”, recita in un monologo la voce silenziosa di Michel Houellebecq. Scrittore e poeta della solitudine esistenziale dell’uomo contemporaneo, penna desolata di un’era vuota in cui l’individuo si aggrappa disperato a scivolosi palliativi e si trascina nella lotta continua alla sopravvivenza, Michel Houellebecq veste i panni di un 56enne “obsoleto” intenzionato a suicidarsi nelle montagne della Provenza un venerdì 13.
Near Death Experience non è la storia di una ribellione grottesca e surreale alla Louise-Michel, o il viaggio in moto di un operaio alienato trainato dall’immenso Gérard Depardieu in Mammuth. E non è neanche una rivoluzione anarchica personale alla Dead e Not in La Grand Soir. È, piuttosto, una riflessione in solitaria dell’uomo medio (?) schiacciato dal peso del nulla esistenziale, e da un cancro ai polmoni galoppante. 7 uomini, una camera ordinaria e una montagna sono bastati a Delépine e Kervern per portare sullo schermo un monologo disperato con immancabili punte di ironia. Near Death Experience è cinema di coraggio, un flusso di coscienza in libertà affidato dai due all’interpretazione di un attore-poeta gracile, vestito con un’improbabile tuta da ciclista, privato di ogni possibile qualità magnetica. Eppure Paul finisce col lasciarci entrare nel suo dramma intimo e ‘irrilevante’ e coinvolgerci nelle sue elucubrazioni disincantate.
Le sue riflessioni amare, i suoi momenti di tenerezza, il fardello di non essere mai riuscito a integrarsi in una società cambiata e alla deriva sono il lamento inascoltato dell’uomo comune, non-eroe perfino dentro le mura domestiche. Sposato a una donna che ha amato ma che sa fare a meno di lui, con dei figli che non ha mai saputo affrontare, Paul sta per accomiatarsi dalla vita e dai suoi affetti lontani rivolgendosi a dei simulacri di pietra che lo ascoltano con la stessa sordità delle persone intorno a lui.
Probabilmente il progetto più fragile nella filmografia dei cineasti per le scelte registiche minimali, per la riduzione della narrazione a un monologo interiore e per aver affidato questi due punti a un protagonista non-straordinario, Near Death Experience è senz’altro l’opera più ardimentosa e affrancata da ogni logica di produzione, scrittura e distribuzione mai realizzata dal duo francese. “Ho sempre pensato che suicidarsi implicasse non solo coraggio, ma soprattutto fortuna. Sono infiniti i suicidi falliti a causa della sfortuna. Alcuni di quei poveri disperati considerano tali fallimenti un segno divino. Non io. Una delle poche qualità che tutti mi riconoscono è la diligenza professionale. Ho sempre portato a termine un compito, a casa e al lavoro. Da bambino, per esempio, ho sempre vuotato il piatto.”