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“Sogno di una notte di mezza estate”: realtà dei sogni di una notte di calendimaggio

Ha avuto luogo domenica 17 agosto 2014, l’ultima replica dello spettacolo teatrale “Sogno di una notte di mezza estate”

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Ha avuto luogo domenica 17 agosto 2014, l’ultima replica dello spettacolo teatrale Sogno di una notte di mezza estate, andato in scena presso il Globe Theatre di Roma a partire dalle due settimane precedenti.

Quanto segue, precisa chi scrive, non vuole  e forse non può essere una recensione  obiettiva, perché  il racconto cronachistico e critico sarà filtrato da una forte emozione provata da spettatrice nell’assistere, per la prima volta, ad un capolavoro del teatro italiano e mondiale diretto egregiamente dal compianto Riccardo Cavallo.

Se vi fosse stata occasione per Shakespeare di vedere e sentire questo manifesto di armonia registica, performativa e  scenica, forse il Bardo avrebbe proferito,  entusiasta, le stesse parole di Bertold Brecht che, dopo aver presenziato alla prima dell’Opera da tre soldi diretta da Giorgio  Strehler, esclamò convintissimo di voler affidare «una dopo l’altra tutte le mie commedie per l’Europa», perché riteneva «schön, schön, schön», ossia bella bella bella la versione italiana unitamente all’allestimento «splendido e  meraviglioso».

Nessuna esagerazione, soltanto pura constatazione di un successo teatrale tout court premiato dall’affluenza costante del pubblico arrivato numeroso e sereno anche quest’anno ad occupare posti a terra e a sedere in galleria per l’ottava stagione consecutiva.

L’aria che si respira al Globe infatti è di gran festa!

Sempre. Volontà di ritrovarsi per presentare ora come agli esordi un prodotto dignitosissimo  che per pulizia, inventiva, scelte musicali raffinate non invecchia mai e  non ha bisogno di adeguarsi ai tempi rispondendo  ad esigenze estremamente “spettacolari”, al contrario, impone un gusto, quello buono dell’agire per e sulle assi di un palcoscenico cum grano salis,  di cui troppo spesso occorrerebbe ormai  urgentemente far richiesta a gran voce, quando ci si pone  dalla parte del pubblico. Qui non manca nulla: lo spettacolo si vede, si sente, si adora perché tutto funziona come in un congegno meccanico sopraffino eppure nella dimensione del sogno collettivo di tutte le coppie  d’amore e d’amicizia è la percezione puntuale della realtà, l’autentica trionfatrice.

Nel bene e nel male, nella follia e nella sanità, nella felicità e  nella malinconia.

Nel nuovo inizio di un viaggio guidato  da Claudia Balboni, che  prende le redini  di un   progetto   a cui  tutti i compagni tranne uno hanno ancora una volta, incondizionatamente aderito.

Quando la  vita  tra gioie e dolori quotidiani  prende congedo ed entra al Globe restandovi fino a mezzanotte circa, il successivo risveglio spettatoriale, avviene  in concomitanza a quello dei personaggi “vittime” degli  incantesimi da fiaba su cui si fonda il “Sogno di una notte di mezza estate” storditi  dal fragore degli applausi diegetici e non indirizzati agli attori di una scanzonata compagnia di artisti in un alto esempio di plot metateatrale.

Tale condizione non esclude la dimensione tutta umana e terrestre dell’incubo dovuto alla precarietà della materia di cui son fatti i sogni e nel salire sempre più su di grado,  a spasso tra le possibili intersezioni di invisibili mondi, compiendo cosmici itineraria mentis, sempre con i piedi per terra,  si manifestano i volumi sublimi delle scatole cinesi di cui parla Riccardo Cavallo nelle sue note di regia esemplificando l’architettura del massimo fattor, il Bardo….

«Tre mondi si contrappongono: il mondo della realtà (quello di Teseo, Ippolita e della corte), il mondo della realtà teatrale (gli artigiani che si preparano alla rappresentazione) e il mondo della fantasia (quello degli spiriti, delle ombre). Ma i sogni alle volte possono trasformarsi in incubi: il dissidio fra Oberon e Titania che rivela a un certo punto un terribile sconvolgimento nel corso stesso delle stagioni, il rapporto tra Teseo e Ippolita, il conquistatore e la sua preda, la brutalità di certi insulti che gli amanti si scambiano sotto l’influsso delle magie di Puck.[…]tre mondi diversi, ciascuno con un suo distinto linguaggio: quello delle fate che alterna al verso sciolto, canzoni e filastrocche, quello degli amanti dominato dalle liriche d’amore e quello degli artigiani, nel quale la prosa di ogni giorno è interrotta dalla goffa parodia del verso aulico. »

Se la grandezza della regia di Cavallo è consistita anche nel saper coinvolgere ovvero reimpastare gli universi  pur preservandone la dose di forte autonomia, in una assenza, piace immaginare, a chi scrive, che quest’anno anch’egli abbia deciso di far parte più concretamente dello spettacolo: quella polverina e quel succo che  sono cagione, per tutti, di grazie e disgrazie dispensate da Oberon e da Puck non si vedono, non si toccano, ma ci sono più incarnate,vivide ed inafferrabili che mai ed operano affinché le trame si intreccino, gli incidenti accadano, le azioni si svolgano, come se nessuno sia mai mancato all’appello del “chi è di scena” di ogni replica.

Per chi non ha mai visto uno spettacolo teatrale diretto da Riccardo Cavallo o la sua versione del “Sogno”, sappia che ha  perso un grande Regista e non deve apparire retorico riaffermare tale verità quando ve ne è occasione: un segno fresco, un tratto classico, una firma chiara e  distinta come quella rosa  che simile all’oggetto de “Il ventaglio” di Goldoni passa nella pièce analizzata di mano in mano, unendole ( o pungendole forse?) fino ad intrecciare e poi sciogliere i rovi, pardon i mondi, di cui sopra.

Da encomiare la pantomima iniziale compiuta con quel fiore: il senso di ritualità e il portato d’Oriente  che fa ritorno nella storia conflittuale del paggetto indiano di Titania, rivestendo l’oscurità della notte e della foresta di una fede speciale, senza dei, di una   bellezza ideale  fatta ancora una volta di nobile semplicità e calma grandezza, di una casta  luce lunare, dona la serenità panica che abbiamo perso spegnendo le stelle per accendere il firmamento di lampioni rubando il dolce riposo a tutte le altre creature.

Con i suoi lunghi capelli d’argento e un  abito color di perla impreziosito da motivi floreali,  Titania e Oberon ( sovrani di fate ed elfi come lo sono della scena) provengono da  un mondo opposto ed uguale, “antimaterico” a quello terreno: appaiono come da uno squarcio di cielo, in visita dallo spazio, in una pausa da un continuo viaggiare  tra  galassie  in cui l’unica vera occupazione è  amarsi in eterno, senza limiti e  confini. Non a caso, è la loro contaminazione  con l’umano, la percezione di una dimensione spazio-temporale ad innescare  un doloroso dissidio, a cui segue la guerra breve per fortuna, perché placata dalla pietà del più forte sul più debole: Titania folle d’amore per un asino è liberata dall’incantesimo,  risvegliandosi con la grazia propria di ogni nascita, dopo il dolore del parto e, come in una reazione a  catena, ciò accade anche alle  altre coppie dei giovani amanti.

Parafrasando l’Artaud dell’Eliogabalo, «Per ora non voglio   soffermarmi  […] su una guerra di meraviglie, di anomalie naturali, di splendidi  spettacoli rituali, in cui l’uomo e  la donna si mischiano attraverso l’oro e la luna sul mantello del sacerdote che officia», giacché occorre proseguire, ma la coppia formata da Claudia Balboni e Carlo Ragone è davvero da  antologia.

Perfetto e magnifico il gruppo degli attori che mette in scena per le nozze di Ippolita  e Teseo  ( a cui si sono aggiunte nello stesso giorno quelle di Ermia  e  Lisandro  e  di Elena e  Demetrio) una versione quanto mai essenziale e modernissima di “Piramo e  Tisbe”.

“Ce sta nu sacc ‘e gente…” grida estasiato il capocomico dall’accento napoletano,  scostando  la tenda di un ideale sipario e sbirciando sul pubblico del Globe che festante si appresta ad applaudire  l’ultimo capolavoro tragicomico della serata.

Ad assistere alla pièce, la platea dove è assiso  l’ordine sociale e sentimentale ristabilito: le coppie degli innamorati  e, al centro, quella dei padroni di casa che rientrano alla fine come in una composizione ad anello per unirsi ( e  moltiplicarsi) in matrimonio.

Unica nota dolente della performance deriva  dall’interprete di Ippolita, che non sa regalare regalità ( si perdoni il gioco di parole) al ruolo  affidatole.

Ancora, ancora ed  ancora Shakespeare dunque, da intendere quale esperienza formativa di vita grazie alla poesia e alla prosa che ne traducono l’essenza mediante un’impareggiabile esperienza linguistica e prossemica.

A tal proposito, si prenda in esame  la postfazione di Requiem ( romanzo nato in portoghese da Antonio Tabucchi) in cui il traduttore in italiano, Sergio Vecchio,  illustra le difficoltà  incontrate nel compiere l’impresa riportando una citazione di Bertrand Russell, a  sua volta  attribuita   a Roman Jakobson nel suo saggio sugli Aspetti linguistici della traduzione: «Nessuno può comprendere la parola formaggio se prima non ha un’esperienza non linguistica del formaggio».

Ai posteri la riflessione.

Mariangela Imbrenda

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