Centro Culturale
Ruah Action
Avviso ai Soci
Giovedi 10 luglio 2014 ore 19.30
La custodia del creato
da Francesco a Francesco
Giuseppe Vatinno
Giornalista, Scrittore, docente di Tematiche Ambientali presso la Facoltà di Teologia del Seraphicum di Roma e Università Parthenope di Napoli
Interviene
Michele Bianchi
dell’IPA (Istituto per la Politica e l’Ambiente), con un intervento dal titolo Lineamenti di estetica ambientale,
commenterà il capitolo ‘Estetica ambientale’ del libro di Giuseppe Vatinno Ecologia politica. La fine del nucleare,
pubblicato nel 2011 da Armando Editore
Contributi cinematografici a cura di Alberto Di Giglio
Interverranno giornalisti, filosofi, scienziati e teologi
AperiCinema
Per partecipare è necessario richiedere la tessera telefonando entro le ore 17 di mercoledì 9 luglio
Info: 336.863610
Ascoltare l’immagine
“Un affascinante viaggio visivo tra incomunicabilità, ascolto degli altri, di sé stessi, di Dio …” nello sguardo di Federico Fellini, Wim Wenders, Michelangelo Antonioni, Charlie Chaplin, A. Tarkovskij, Julien Duvivier, Terrence Malik …
Un film montaggio di Alberto Di Giglio (durata 90′)
Interventi di Plinio Perilli (poeta e critico letterario); Luca Biscontini (Taxi Drivers); Michele Bianchi (psicoanalista); Stefano Valente (filosofo).
Presso il Ruah-action, venerdì 4 luglio 2014, ore 19;30.
Sintesi dell’intervento di Stefano Valente.
Si è parlato di una possibile grammatica dell’ascolto … ebbene il mio tentativo sarà quello di indicare un ascolto senza grammatica, quindi un ascolto radicalmente aperto al non senso. Qui mi ricollego idealmente ad una poesia di Maria Luisa Spaziani contenuta nella raccolta “L’occhio del ciclone” (1970) magistralmente letta da Plinio Perilli e che si conclude dicendo: “… e il caos finalmente”. Una sfida non facile quella di pensare un ascolto al di là della grammatica soprattutto se è vero quello che ci dice il filosofo Nietzsche: ”Finché non avremo liquidato la grammatica non ci saremo liberati di Dio” (in “Verità e menzogna” del 1873) naturalmente qui si parla del Dio dell’ontoteologia.
Prima di iniziare il mio intervento vorrei riallacciarmi all’intervento di Luca Biscontini che sottolineava il bisogno di produrre immagini di pace nel cinema (in riferimento al libro di W. Wenders e Mary Zournazi, “Inventare la pace”, Bompiani, euro 20, pagine 263). Nel suo intervento ha riproposto alcune domande formulate da Wenders stesso: Come rendere lo sguardo degli angeli? Come ci vedono gli angeli? Come li vediamo? (pensate al controcampo dello sguardo dei bambini che sono i soli a poter vedere gli angeli!?) Se gli angeli ci guardano amorevolmente come può una macchina da presa guardare il mondo con altrettanto affetto? E poi: Come si può produrre un’immagine di pace? Prima di tutto – continua Biscontini – si deve abbandonare uno sguardo di tipo intenzionale, quello di un ego cartesianamente inteso, per contrapporre a ciò uno sguardo capace di accogliere lo sguardo degli altri. Per accogliere in maniera radicale la proposta di Biscontini bisogna comprendere che non si tratta tanto di “produrre” immagini che raffigurino la pace magari anticipandola in figura oppure attraverso immagini che vogliano rappresentare figurativamente un tema: quello della pace. Ridurre la pace a tema di discorso o ad oggetto di rappresentazione significa svuotarla del suo apporto messianico che, invece, è proprio dello Shalom ebraico. Sbagliato sarebbe anche pensare di ridurre la pace a rappresentazione per poter poi passare dalla rappresentazione al rappresentato (questo sarebbe davvero manipolare la pace). Come dicono i Buddhisti: Non esistono vie alla pace perché la pace è la via – e noi sappiamo quanti massacri sono stati giustificati in nome della pace. Quindi non si tratta di produrre immagini della pace, ma immagini pacifiche. Un’immagine che sia pace, che generi pace: una pace che non sia solo l’assenza di guerra, ma che sia capace di suscitare quel libero gioco delle facoltà dell’anima di cui parlava Kant nella sua Critica della facoltà di giudizio: la pace di una contemplazione estetica come premessa e realizzazione della contemplazione di una pace etica. Per questo ci vuole – come dice Biscontini – uno sguardo pieno di grazia.
Ma ora vorrei tornare al mio intervento che vuole farci percorrere un breve percorso che ci porterà a parlare di Saussure, Kandinskij, Antonioni, Godard ed anche delle prime apparizioni del Cristo risorto ai discepoli – questo riferimento alla resurrezione non vi stupisca se un grande filosofo come M. Henry ha potuto affermare che: “L’arte (e non solo quella di Kandinskij) è la risurrezione della vita eterna”.
Per rompere il ghiaccio vorrei iniziare con una battuta. All’ennesimo critico cinematografico, che ancora una volta chiedeva conto ad Antonioni del suo cinema della incomunicabilità (ormai diventato un luogo comune della critica), il regista rispondeva con ironia e senso del paradosso: “Ebbene! Almeno a qualcosa i miei film sono riusciti, sono riusciti a comunicare l’incomunicabilità stessa”.
Ma ora veniamo a noi finalmente! L’aspetto più interessante del montaggio creativo realizzato da Alberto Di Giglio sta in ciò: non si tratta tanto di accostare sequenze di vari film aventi per tema l’ascolto (seppur declinato nelle sue forme: 1) Incomunicabilità; 2) Ascolto di sé; 3) Ascolto dell’altro; 4) Ascolto di Dio; 5) Silenzio …); ma si tratta piuttosto di immagini da ascoltare. Questa sinestesia comporta delle implicazioni per molti versi decisive; quindi non dobbiamo considerarla semplicemente come una figura retorica, ma come la via per accedere ad una considerazione criticamente avvertita della questione del senso. La sinestesia è una figura retorica che prevede l’accostamento di due termini appartenenti a due piani sensoriali diversi. Facciamo qualche esempio: A poco a poco mi ripigneva là dove’l sol tace (Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, Canto I); Urlo nero (Salvatore Quasimodo, Alle fronde dei salici, da La buona novella); L’odore di fragole rosse (Giovanni Pascoli, Il gelsomino notturno, da Canti di Castelvecchio). Ma dicevamo che non si tratta solo di una figura retorica. Inoltre come ci ha ricordato Plinio Perilli “nelle arti stesse c’è una certa tendenza a coniugarsi l’una con l’altra e questo vale non solo per le arti, ma anche per il discorso critico: come ci si può occupare soltanto di cinema e non di letteratura e non di pittura … Pensate al Barocco!!”.
Prima di affrontare il discorso “cinema”, però, vorrei soffermarmi su alcuni aspetti della ricerca artistica di Kandinskij che ci aiuteranno – lo spero – a cogliere i termini della questione. Ma la questione non è limitata solo al cinema ed alla pittura; pensate a Saussure che nelle prime pagine del suo celebre Corso di linguistica generale a proposito del significante parla di una “immagine acustica”. Basti questo a sottolineare come siano qui in gioco questioni che investono anche lo stesso linguaggio. Ma attenzione! Lontano da me ricondurre le questioni relative all’immagine a questioni di linguaggio; non solo perché si dovrebbe una buona volta mettere in mora la categoria di “linguaggio artistico”, nozione che può avere un qualche vago significato quando si parla in generale o genericamente, ma che non regge ad un adeguato esame critico; ma anche perché ormai è stata dimostrata l’impossibilità di costruire una semiotica dell’immagine. L’immagine può essere solo raccontata. Questo non significa che gli approcci di tipo semiologico al cinema siano abusivi. Certo qui non si vuole rivendicare un qualche specifico filmico e si è ben disposti anche a considerare il cinema come un insieme eterogeneo di codici oppure come un testo anche se sui generis – eppure l’immagine, anche l’immagine filmica, eccede il linguaggio o ci mette sotto gli occhi un aspetto del linguaggio che non è riconducibile a segno; un aspetto del linguaggio che eccede il suo riferirsi a qualcos’altro. Ma questa a cui qui abbiamo solo accennato è la questione teorica sottesa a tutto il nostro intervento di questa sera.
Per avvicinarci alla questione così come è stata impostata da Kandinskij ci limitiamo per ora a sottolineare come non solo i suoni abbiamo un colore (quello che si chiama comunemente il timbro di un suono), ma come per Kandinskij anche i colori abbiano un suono. Procediamo con ordine.
Ascoltare le immagini. Per cogliere meglio la posta in gioco vorrei spostare il discorso dal cinema alla pittura ed alla pittura di Kandinskij. In un saggio pubblicato nel primo numero dell’Almanacco “Il Cavaliere azzurro” (“Der Blaue Reiter” – 1911) intitolato: “La questione delle forme” Kandinskij con toni un po’ profetici e messianici introduce due espressioni alquanto oscure; egli parla di una mano nera che uccide e di un raggio bianco che feconda. Queste espressioni fanno subito pensare ad una manichea contrapposizione di principi oppure ad una dialettica di tipo hegeliano ove gli opposti si contrappongano fino a comporsi o meno in una superiore sintesi. Inoltre sono abbastanza noti gli interessi di tipo teosofico che hanno animato specialmente la prima parte della ricerca artistica di Kandinskij il quale – è documentato – ha certamente partecipato alle conferenze sull’essenza dei colori di R. Steiner, il fondatore dell’antroposofia. Sebbene questo sia vero, noi vorremmo tentare una lettura “secolarizzata” di queste due strane espressioni non solo per spogliarle di quel misticismo di cui sono cariche e che potrebbe non essere condiviso da tutti, ma soprattutto perché potrebbero diventare la via per comprendere come sia possibile ascoltare un’immagine.
Torniamo dunque alle due fumose espressioni di Kandinskij nel tentativo di riformularle in termini meno misticheggianti e spiritualistici. Per Mano nera dobbiamo intendere le ‘cose’ in quanto prese nel loro contesto pragmatico. La mano è nera appunto perché quando usiamo le cose di solito non le vediamo in quanto cose; esse sono degli utilizzabili; sono semplicemente presenti nel senso che sono im-man-tinenti. Quando adoperiamo le cose abbiamo a che fare con degli utilizzabili … in questo senso è come se le cose avessero una specie di manico per cui vengono afferrate (dalla mano nera) per essere adoperate. In verità noi non vediamo mai le ‘cose’ che utilizziamo, le cose che sono parte integrante di un contesto pragmatico ed operativo non sono mai viste propriamente nella loro cosalità di cose (per esprimerci come fanno i filosofi, anche se è un modo un po’ buffo) – ecco perché la mano che afferra è nera: non perché le cose nel loro esserci siano a noi nascoste, ma al contrario proprio perché le abbiamo continuamente sotto gli occhi. Allora ci vuole un raggio bianco che feconda le cose – come fa a farlo? Ebbene quando scende questo raggio bianco interrompe in maniera effettiva questo contesto pragmatico in cui di solito usiamo le cose e per la prima volta ci accorgiamo delle cose in quanto cose: è come se le vedessimo per la prima volta. Ora le cose “si presentano(!)” nella luce. Illuminati dal raggio bianco dell’arte non vediamo più le cose come mezzi, in quanto servono a questo o a quello; ma vediamo le cose in quanto cose nella loro strana concretezza ora che ci appaiono inservibili (penso, per esempio, al famoso quadro di Van Gogh raffigurante un paio di zoccoli olandesi – curioso ai nostri fini è notare che forse si tratta di due zoccoli sinistri. Questo dipinto è stato preso come esempio da Heidegger nel suo saggio L’origine dell’opera d’arte ed in seguito se ne sono occupati anche M. Schapiro ed il filosofo francese J. Derrida). Il raggio bianco poi è fecondo perché interrompendo il contesto pragmatico in cui la cosa era solo un utilizzabile, un mezzo, ci rivela della cosa tutta una serie di aspetti (Kandinskij li chiama pure vibrazioni) che non vedevamo prima anche se li avevamo sotto gli occhi. Il raggio bianco è fecondo perché ci mostra la cosa nel suo eccedere la funzione per cui è adoperata senza essere vista. Allora la cosa ci ci rivela come feconda di aspetti, di risonanze, di sensi, di vibrazioni, di nessi e corrispondenze con altre cose che magari di primo acchito non hanno nulla in comune; cose che l’artista può cogliere e mettere in fibrillazione o in risonanza.
Per meglio comprendere vogliamo riprendere un esempio che fa lo stesso Kandinskij. Per cercare di cogliere (si tratta infatti di un’esperienza dello sguardo più che di un pensiero esprimibile in concetti) un segno grafico nel suo risuonare, nel suo vibrare bisogna mettere tra parentesi quello che è il suo riferimento ad un significato, ad un contesto pragmatico di senso. Questo per noi è difficile; infatti noi oltrepassiamo sempre il segno per raggiungere il significato che esso veicola. Quando leggiamo un testo scritto noi non ci accorgiamo mai del corpo dei caratteri a stampa. Come accedere a questa matericità del segno? Proviamo ad immaginare di aprire un libro a stampa scritto in lingua italiana senza aver previamente imparato la lingua italiana: casa vedremmo? Vedremmo quello che un soggetto che non abbia appreso la lingua ideogrammatica cinese vedrebbe: delle chiazze di inchiostro nero, degli scarabocchi.
Ebbene l’arte sospendendo il loro riferimento ad altro ci mostra le immagini in quanto tali – qui abbiamo a che fare non tanto con l’apparire di questo o di quello, quanto con l’apparire dell’apparire medesimo. Questa carne della rappresentazione (quanto nella rappresentazione stessa non si riferisce all’oggetto, ma a se stessa) eccede la rappresentazione medesima pur essendo sempre già sotto i nostri occhi. A rigore, quindi, dobbiamo dire che questa carne non la vediamo propriamente oppure dobbiamo dire – con un paradosso difficilmente evitabile – che vediamo l’invisibile; dove per “invisibile” non dobbiamo intendere qualcosa che stia dietro il visibile (come invece fa la metafisica), ma appunto qualcosa che sta sempre sotto i nostri occhi e che perciò non riusciamo a vedere. Qui sarebbe più appropriato parlare di un ascolto dell’immagine – ma, se io l’ascolto, cosa mi dice l’immagine? Una volta sospeso il riferimento dell’immagine a ciò che essa rappresenta, allora l’immagine mi dice se stessa, cioè mi dice le sue forme ed i suoi colori (il riferimento è a Wittgenstein). Grazie alla pittura di Kandinskij cominciamo ad ascoltare le forme ed i colori, sentiamo il loro vibrare e risuonare, ascoltiamo il loro suono interiore. Noi vediamo soltanto l’immagine ogni qual volta la oltrepassiamo verso il suo significato o verso il suo rappresentato; noi sentiamo l’immagine quando la cogliamo per se stessa: allora essa si mostra come una sinfonia di linee, forme e colori. Quindi questo paradossale vedere l’invisibile è un ascoltare l’immagine. La pittura di Kandinskij ci fa accedere proprio a questa dimensione invisibile che può essere colta solo articolando insieme (sinesteticamente appunto) vedere ed ascoltare.
[Ciò – come ha giustamente sottolineato Michele Bianchi nel suo intervento – chiama in causa il ruolo decisivo del fruitore. Infatti suono ed immagini nel cinema sono coincidenti solo grazie all’ausilio del fruitore che li fa coincidere formulando un Sì bello. Questa è una struttura povera di coincidenza che ha bisogno di qualcuno che la testimoni].
Come accennato all’inizio qui vorrei fare solo un fugace riferimento ai racconti della resurrezione di Cristo. In tutti i racconti delle apparizioni di Cristo seguenti alla sua resurrezione Gesù non viene riconosciuto subito al suo apparire; ma lo è non appena rivolge la parola (come nel caso di Maria Maddalena che Gesù chiama per nome) o non appena fa riferimento alle Scritture che di lui sono profezia (come nel caso dei discepoli di Emmaus). Anche qui bisogna ascoltare l’immagine per riuscire a vedere l’invisibile.
[A tal proposito ricordo i riferimenti per molti versi illuminanti di Michele Bianchi alle apparizioni della Madonna alla piccola Bernadette Soubirous a Lourdes]
Certo l’esempio esemplare (più che soltanto esemplificativo) di Kandinskij è veramente illuminante per quanto riguarda la questione che ci occupa; eppure visto che di cinema si tratta sarebbe quanto meno il caso di fare un esempio cinematografico. Subito ci è venuto in mente Michelangelo Antonioni. Nei film di Antonioni – almeno a parere di chi scrive – le parole arrivano sempre in ritardo rispetto alle immagini. Questa vera e propria sfasatura (questa non-coincidenza) permette di operare quella sospensione del significato che ci mette in condizione di esporci radicalmente e pericolosamente all’immagine così da metterci in suo ascolto nel tentativo di sintonizzarci su di essa. Per non rimanere nel vago vogliamo ricordare almeno il bellissimo film “Deserto rosso” – l’esempio ci sembra abbastanza eloquente purtuttavia vogliamo richiamare alla mente (ricordo a memoria) un breve ma decisivo dialogo che si svolge tra Monica Vitti (che interpreta il personaggio di Giuliana) e l’ingegnere Corrado Zeller. Giuliana disperata afferma: “Perché il verde è verde?” e subito l’ingegnere risponde: “Anch’io spesso mi chiedo che senso abbia l’esistenza!”. L’ingegnere pensa che si tratti della stessa domanda, ma questo è un madornale equivoco. Quella di Giuliana non è una ricerca di tipo esistenzialistico del senso della vita, ricerca pur sempre fatta da un soggetto ben centrato in se stesso. Quello che terrorizza fino alla paralisi Giuliana è il fatto che c’è il verde. Il colore, infatti, c’è senza propriamente esistere! Così l’incipiente follia di Giuliana ci apre l’accesso a quell’ascolto dell’immagine che mette fuori gioco il soggetto produttore di rappresentazioni per aprirci all’aperto (ecco un altro piccolo paradosso!). Giuliana toglie la distanza di sicurezza fra sé e le cose (distanza che si chiama “rappresentazione”) per esporsi ed esporci radicalmente al senso ed al non senso dell’immagine.
Quasi inavvertitamente siamo passati dal tema dell’ascolto all’ascolto di un tema musicale – infatti l’immagine di cui stiamo parlando è più vicina ad un tema musicale che alla rappresentazione di qualche cosa. L’unico modo di spiegare il significato di un tema musicale – credo che dica Wittgenstein da qualche parte – è quello di suonare di nuovo il tema musicale.
Quest’ultima osservazione ci richiama alla mente una illuminante e quasi idiota affermazione di Jean-Luc Godard. Godard più che dire esclama: “Il cinema è il cinema”. Questa è una tautologia (entusiasmante per alcuni, deludente per altri); una tautologia è una proposizione dove il predicato ripete il soggetto e che perciò ci appare vuota o dotata di un contenuto puramente analitico. Ma noi qui non ci troviamo in un contesto logico bensì estetico, quindi dobbiamo distinguere una tautologia logica da una tautologia – che potremmo definire – estetica. La tautologia logica dice nulla; mentre la tautologia estetica dice se stessa. Allora cosa mi dice l’immagine (cinematografica)? Come abbiamo più volte detto essa mi dice se stessa, cioè la sua forma ed i suoi colori (Cfr. Wittgenstein, Ricerche filosofiche). Ma siamo noi pronti a prestare ascolto a questa voce muta dell’immagine? Il film-montaggio realizzato da Alberto Di Giglio sembra lavorare per prepararci a questo esercizio di comprensione dell’immagine che va in direzione di un ascolto che ecceda ogni tipo di grammatica per esporci all’immagine in quanto immagine.