In Sala

Tutta colpa del vulcano

L’ultima fatica di Coffre (“Un pure affaire”) dà il suo meglio quando il suo umorismo si spinge verso il surreale, ma allo stesso tempo è questo il vero limite del film, che nella germinazione dell’assurdo stanca, ripetendo senza grandi variazioni le stesse incomprensioni e incoerenze

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Anno: 2013

Distribuzione: Bim

Durata: 92′

Genere: Commedia

Nazionalità: Francia

Regia: Alexandre Coffre

Data di uscita: giovedì 5 giugno 2014

Aprile 2010. Alain e Valerie, separati da vent’anni e intolleranti l’uno con l’altra, sono sullo stesso volo diretto da Parigi a Corfù per assistere al matrimonio della figlia Cécile. L’eruzione del vulcano islandese Eyjafjallojökull riempie però di cenere i cieli di tutta Europa e l’aereo su cui i due ex coniugi viaggiano è costretto ad un atterraggio di emergenza a Stoccarda. Con il traffico aereo congestionato, Alain e Valerie devono arrangiarsi come possono per proseguire lungo i duemila e passa chilometri che li separano dalla Grecia. Durante il tragitto, l’avventura che vivranno e i paesaggi che attraverseranno li aiuteranno ad approfondire nuovamente la loro conoscenza.

Distribuito in Francia con l’impronunciabile nome del vulcano islandese Eyjafjallojökull (i distributori italiani hanno preferito non rischiare, richiamando recenti commedie di casa nostra come Tutta colpa del paradiso o Tutta colpa di Freud), Tutta colpa del vulcano gioca tutte le sue gag sul talento istrionico dei due protagonisti, Valérie BonnetonDany Boon, entrambi molto popolari oltralpe. Si tratta di un umorismo che cerca di essere raffinato, ritmico, verbale, ma che spesso diventa verboso e scontato. Il ritmo è garantito dall’impianto road movie, che vede i protagonisti passare dalla Germania, alla Grecia, all’Austria, alla Slovenia, all’Albania: il viaggio e la risata sono i due reali centri di interesse del film, che per il resto offre una narrazione convenzionale e qualche scena di azione sufficientemente tirata (incidenti aerei, inseguimenti, distruzioni). La narrazione parte di gran carriera, senza troppi sviluppi psicologici, gettando subito lo spettatore in situazioni improbabili e grottesche.

L’ultima fatica di Coffre (Un pure affaire) dà il suo meglio quando il suo umorismo si spinge verso il surreale, ma allo stesso tempo è questo il vero limite del film, che nella germinazione dell’assurdo stanca, ripetendo senza grandi variazioni le stesse incomprensioni e incoerenze. Lo sfondo sentimentale è ridotto, appunto, a mero sfondo, senza emozionare né aggiungere niente ai personaggi. Non mancano le trovate ispirate, come l’ex-assassino convertitosi in prete illuminato (Denis Ménochet), ma la sceneggiatura è nel complesso debole, e tutta al servizio della recitazione dei due attori protagonisti. Il sospetto è che il film sia arrivato in Italia solo per sfruttare la discreta popolarità conquistata da Dany Boon con Giù al Nord; ma se in quel film, nel quale l’attore vestiva anche i panni di regista, con tutti i suoi limiti, il viaggio forzato era lo strumento con il quale abbattere i pregiudizi, nell’opera di Alexandre Coffre esso è un puro pretesto. È anche vero che qualsiasi film interpretato da Dany Boon soffrirà sempre, da parte della critica, di un inevitabile confronto con quello che è stato il suo più grande successo, quindi forse sarebbe meglio prendere il film per quello che è: una serie di gag, alcune più riuscite, alcune meno.

Raffaele Pavoni

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