In un montaggio sincopato, con una lunghissima carrellata all’indietro, scorrono i titoli di testa del film che partono da immagini di neuroni di un cervello e, passando dalla testa, arrivano al volto sudato e alla bocca che stringe la canna di una pistola, fino alla mano che la impugna. Inizia – dalla fine della storia – la narrazione, con voce over del personaggio principale senza nome (Edward Norton in stato di grazia), di Fight Club (1999) di David Fincher.
Tratto dal secondo omonimo romanzo (il primo pubblicato) dello scrittore di Portland Chuck Palahniuk, Fincher riesce a tradurre in immagini la scrittura postmoderna e ritmata, fatta da un linguaggio ricco di neologismi, composito e complesso. Il soggetto del film non si discosta molto, ma quei piccoli scarti che lo sceneggiatore Jim Uhls compie, fanno del film un’opera altra, radicale e più strettamente legata a temi immanenti. Infatti, partiamo dal presupposto che Fight Club parla sostanzialmente delle vicende di uno schizofrenico e maniaco depressivo il cui alter ego Tyler Durden (interpretato da Brad Pitt con una certa energia). La sequenza iniziale – la macchina da presa che esce letteralmente dalla mente del protagonista – e l’intera prima parte del film sembra suggerire questo: stiamo assistendo alla rappresentazione di una mente malata e come vede il mondo che la circonda. Un film psicologico, violento nella forma e nei contenuti, maschilista, un gioco claustrofobico. A questo però va aggiunta una visione della società dei consumi e dei suoi meccanismi perversi che cambia l’oggetto di analisi e che determina un altro punto di vista per lo spettatore.
La malattia dell’Homo Consumens come sintomo dell’infelicità sociale
Possiamo allora definire che la malattia psichica del narratore senza nome sia frutto della società in cui vive, che sia un suo prodotto. Dopo la sequenza iniziale, la fabula continua con un primo flashback che ci fa vedere il protagonista frequentare gruppi di sostegno come quello per gli uomini con il cancro ai testicoli e altri. Qui incontra la causa dei suoi guai: Marla Singer (Helena Bonham Carter, un’Alice nel paese delle meraviglie simil punk). A queste sequenze si aggiunge un successivo flashback – in una mise en abyme vorticosa che dà la cifra del contorsionismo mentale del narratore interno – che va indietro nel tempo a sei mesi prima dei fatti narrati. Ecco che, con poche sequenze, in un montaggio secco, è messo in quadro il progressivo sdoppiamento del narratore e la nascita di Tyler Durden. Il narratore soffre d’insonnia, lavora come assicuratore per una grande fabbrica di automobili, vive consumando e acquistando beni di lusso, vestiti firmati, fino ad arrivare ad arredare il suo piccolo e funzionale appartamento, in un lussuoso condominio per ricchi single e pensionati, seguendo la moda Ikea – ed è bellissima la sequenza della lettura del catalogo di mobili e arredamenti che prendono vita e appaiono nelle stanze dell’appartamento.
Il narratore di Fight Club è un perfetto homo consumens che, come l’ha definito il sociologo Zygmunt Bauman, è un eterno insoddisfatto, la sua vita è fatta di consumi, continui e senza sosta, di acquisto, uso e rifiuto degli oggetti e dei servizi. E’ un essere in continuo movimento (1).
In qualche modo la sua vita è standardizzata, fatta di regolarità e di azioni sempre uguale a se stesse. Possiede tutto il nostro protagonista, tutto ciò che possa desiderare, ma allo stesso tempo continua a soffrire d’insonnia. E anche se “la società dei consumatori aspira alla gratificazione dei desideri più di qualsiasi altro tipo di società del passato”, essa “si fonda sull’insoddisfazione permanente, cioè sull’infelicità”. In modo subdolo soddisfa “completamente ogni desiderio che non possa nascere l’impulso a desiderare qualcosa di diverso: il desiderio si trasforma in bisogno e diventa un’esigenza compulsiva e una dipendenza” (2).
L’insonnia è il sintomo del disagio individuale che porta il narratore protagonista a chiedere aiuto a un medico che non lo ascolta. Arriva a dirgli che “l’insonnia può uccidere” e lui si sente malato. E il medico per tutta risposta gli dice semplicemente di fare “più movimento” e poi lo invita ad andare a vedere “chi veramente soffre”: quelli con il cancro ai testicoli. La scoperta di questi gruppi di sostegno, di uomini e donne sofferenti e malati, riesce a liberarlo emotivamente. La finzione che interpreta ogni volta che partecipa a uno di questi gruppi finalmente lo fa dormire perché “ogni sera morivo e ogni sera rinascevo di nuovo, resuscitato” dice lui stesso.
In forma iconica, il narratore diventa simbolo della sofferenza psichica dell’homo consumens: “La sofferenza umana di oggi tende per lo più a scaturire dalla sovrabbondanza di possibilità, piuttosto che da un eccesso di divieti (…) e l’opposizione tra il possibile e l’impossibile” porta inevitabilmente alla “depressione che scaturisce dal timore dell’inadeguatezza (…) come forma (…) diffusa di sofferenza psichica” nella società consumistica (3).
L’arrivo di Marla Singer all’interno di questi gruppi però, come abbiamo accennato, lo riporta allo stato insonne di partenza, perché in qualche modo anche lei è palesemente una persona falsa e la sua riconoscibilità non fa altro che ricordare al narratore chi veramente esso sia. E’ interessante l’interpretazione che ne dà Marcello Gagliani Caputo, definendola espressamente come “il lato femminile che ogni uomo ha e che spesso nasconde” e che la definisce come “sia parte di sé” (4) a proposito di come la descrive il narratore: “Un tumore”, “un taglietto all’interno del palato”. Marla non è solo lo specchio del narratore, ma diventa elemento rivelatore, mutageno e mutante, della psiche del protagonista. E s’intromette tra lui e il suo doppio, Tyler Durden, diventando alla fine di Fight Club la vera causa della presa di coscienza del protagonista e anche elemento di guarigione, di sostituzione del suo alter ego che ucciderà, sparandosi in bocca, nella scena finale.
L’apparizione dell’alter ego Tyler Durden sarà annunciato da quattro inserti subliminali, che l’occhio dello spettatore più attento percepisce a malapena, più un quinto in un ben visibile messa in quadro in campo americano.
Il primo lo scorgiamo dietro a un bicchiere di caffè dello Starbuck Coffe in ufficio del narratore; il secondo, a fianco del medico che non vuole aiutare il nostro protagonista a curare l’insonnia; il terzo, al gruppo di sostegno degli uomini ammalati di cancro ai testicoli, vicino al coordinatore del gruppo mentre dice “sfoghiamo liberamente le nostre emozioni”; il quarto, in strada mentre Marla fugge dopo il primo incontro al gruppo di sostegno con il narratore; il quinto, sulle scale mobili di un aeroporto, ma questa volta ben visibile, mentre i due s’incrociano.
Poiché “La cultura consumista (…) racchiude in sé un’inestirpabile pressione a essere qualcun altro” (5), alla fine Tyler Durden si materializzerà definitivamente, proprio durante una dei tanti viaggi in aereo che il narratore compie per lavoro. Il percorso della maturazione della psicosi è compiuta. La società dei consumi ha creato il mostro al suo interno che la porterà alla sua (auto)distruzione.
La rivolta dei consumatori inadeguati e la riconversione della società consumistica
Tutta questa prima parte del film dura appena 21’ e capiamo bene quanto essa sia complessa e ricca di tematiche. Già la portata di Fight Club e dei temi che Fincher mette in scena sarebbero sufficienti a renderla un’opera di grande interesse nella filmografia del regista americano e un esempio di rappresentazione delle mutazioni sociali che il Cinema contemporaneo riesce a raccontare. Il film continua ancora per quasi due ore nello sviluppo della trasformazione sociale e psicologica del narratore attraverso il confronto/scontro con l’altro sé, Tyler Durden.
Con la globalizzazione in atto, lo spazio politico dello Stato è ridotto. La cosa pubblica non esiste più, esiste solo la cosa privata o di una comunità di individui la cui politica è amministrata dal mercato. Questo scollamento tra Stato e politica e la sottrazione della sua sovranità “insieme al controllo assunto dal mercato sui servizi più importanti, trasforma i cittadini in consumatori” (6).
Il narratore perde il suo appartamento, perde tutti i suoi avere e andrà a vivere in un caseggiato fatiscente insieme a Tyler Durden. Inizierà a fare “dell’attività fisica”, come suggeriva il medico, per curare l’insonnia: prendere a pugni Tyler Durden, cioè se stesso. E da qui raccogliere intorno altri uomini, consumatori, che attraverso il contatto fisico si riappropriano del proprio corpo che non è più mero oggetto passivo di consumo.
Se “nel processo di riconversione degli umani in consumatori con la conseguente erosione di tutte le altre qualità e reazioni (…) il mercato è diventato un maestro di esclusione sociale” (7), il procedimento inverso passa attraverso la spoliazione di tutti gli averi e dei ruoli sociali, attraverso la costituzione dei fight club che porteranno a un lento processo di apprendimento di tecniche di sopravvivenza e di ribellione urbana e sociale.
Il narratore con Tyler Durden compirà un’operazione su larga scala per scardinare dal basso una società ipocrita che ti possiede non solo nel corpo, ma soprattutto nella mente. Tyler Durden lo dice chiaramente che “le cose che possiedi alla fine ti possiedono” e la prima azione da compiere e disfarsi di tutto questi orpelli superflui. E, infatti, “oltre a essere un’economia basata sull’eccesso e lo spreco, il consumismo è anche un’economia dell’inganno. Solo che l’inganno, e con esso l’eccesso e lo spreco, non si manifestano come sintomi di qualcosa che non funziona, ma al contrario come segni di buona salute e ricchezza e come una promessa per il futuro” (8).
Dai fight club alla nascita di un gruppo diffuso di rivoluzionari, diviso in cellule operative su tutto il territorio nazionale e inseriti in ogni anfratto della società consumistica, parte proprio l’organizzazione di un piano messo in atto da individui che non si conoscono nemmeno uno con l’altro e provenienti dagli strati più poveri della società dei consumi.
Quello “che definisce la povertà, cioè l’anormalità, al giorno d’oggi non è l’occupazione, ma la capacità di consumare. I poveri di oggi sono colpevoli di non contribuire al consumo di beni, non alla loro produzione”. Essi “sono prima di tutto dei non-consumatori o dei consumatori inadeguati e difettosi” (9).
I consumatori “difettosi” saranno quelli che alla fine colpiranno al cuore la società consumistica e i loro simboli, o meglio, le sedi del suo potere: le banche, le istituzioni finanziarie, gli uffici amministrativi e fiscali. Il narratore cercherà di fermare Tyler Durden, cioè se stesso, ma non riuscirà a interrompere un processo che ormai è inarrestabile. In un autodafé finale interi palazzi saltano nella notte, e il narratore si è liberato di un inutile Tyler Durden poiché è riuscito a far scoppiare i cardini della società dei consumi. Il narratore e Marla Singer di fronte al crollo di questo tipo di società diventeranno dei nuovi Adamo ed Eva di una società futura, nuova, non si sa se migliore o peggiore, ma sicuramente diversa.
Fincher, ancora una volta – come in altre sue opere (e citiamo come altro esempio The Social Network) – riesce a raccontare con lucidità i sommovimenti della società contemporanea, con la capacità di testimoniare, attraverso il suo cinema, temi presenti (che ci toccano direttamente) e i cambiamenti in atto in questo inizio di millennio.
Antonio Pettierre
Note.
(1) Zygmunt Bauman, Homo consumens, Edizioni Erickson, 2007, pag. 23.
(2) Zygmunt Bauman, Op. cit., pag. 50.
(3) Zygmunt Bauman, Op. cit., pag. 21.
(4) Marcello Gagliani Caputo, Fincher e le donne, pag. 65, in The Fincher Network a cura di Roberto Donati & Marcello Gagliani Caputo, Edizioni Bietti-Heterotopia, 2011.
(5) Zygmunt Bauman, Op. cit., pag. 28.
(6) Zygmunt Bauman, Op. cit., pag. 37.
(7) Zygmunt Bauman, Op. cit., pag. 39.
(8) Zygmunt Bauman, Op. cit., pag. 51.
(9) Zygmunt Bauman, Op. cit., ppgg. 56-57.