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Underground

Emile De Antonio’s Underground

“Riscoperto con una retrospettiva e una monografia dedicatagli dall’edizione 2009 del milanese Filmaker Film Festival Doc, il cinema di Emile De Antonio è passato per Roma grazie ai due lavori che il Cinema Trevi ha proiettato nei giorni scorsi.”

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Riscoperto con una retrospettiva e una monografia dedicatagli dall’edizione 2009 del milanese Filmaker Film Festival Doc, il cinema di Emile De Antonio è passato per Roma grazie ai due lavori che il Cinema Trevi ha proiettato nei giorni scorsi.

 Documentarista militante, autore di una decina di opere nelle quali ha indagato da una prospettiva politica dichiaratamente parziale le dinamiche interne agli Usa durante gli anni della Guerra Fredda (da McCarty alla morte di Kennedy, da Nixon alla guerra in Vietnam), nel 1976 De Antonio decise di avvicinarsi al gruppo dei Weather Underground, attivisti politici al tempo accusati di terrorismo e costretti a vivere in clandestinità.

Ne uscì fuori Underground, un film che in corso d’opera divenne un esperimento di collettività autoriale (o di ricerca di “comunitaria” non autorialità), una conversazione informale con cinque membri del gruppo (tra i quali il leader Bill Ayers) ripresi nei loro “rifugi” di Los Angeles, senza possibilità di controcampo per necessità di tutelare una latitanza che durava da cinque anni (controcampo da intender qui sia propriamente nel linguaggio cinematografico che, più a fondo, come mancanza di un contraddittorio) e fornendo un vigoroso attacco frontale alle istituzioni governative, alle forze armate e alla polizia. (L’FBI rimase sconvolta e infastidita da come un filmmaker era arrivati dove loro mai erano riusciti ad avvicinarsi).

 Nati in ambito universitario negli anni delle proteste anti-militariste, pacifiste e anti-imperialiste di fine anni ’60, convinti della necessità di un’azione diretta e violenta, i Weather Underground si formarono come partito rivoluzionario e clandestino prendendo ispirazione da un verso di Bob Dylan (“You Don’t Need a Weatherman to Know Which Way the Wind Blows.”).

Vicini alla Cuba castrista, ispirandosi alla mitizzata Cina maoista, nonché alle lotte dei neri per l’uguaglianza dei diritti (Malcom X, M.L.King,…), e soprattutto convinti assertori delle teorie leniniste sulla lotta di liberazione nazionale dall’imperialismo di stato, appoggiarono il movimento delle Black Panthers durante le manifestazioni di Chicago ’69 (The Days of Rage) e proseguirono negli anni ’70 un tentativo di guerriglia civile contro il governo centrale fatto di gesti dalla forte carica simbolica (gli attacchi-bomba al Pentagono e al Campidoglio).

Seppur in grado di decostruire con lucidità la situazione socio-politica americana, non riuscirono mai a creare quel movimento rivoluzionario di massa necessario per conquistare quella giustizia sociale indicata come l’obiettivo principale del movimento, e progressivamente finirono per disgregare le loro forze.

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Visto oggi, un documentario militante che con tanto afflato utopico dichiara con fiducia e senza alcuna rassegnazione l’imminenza di una rivoluzione, e che con una certa ingenuità si richiama al potere del “popolo”, sembra più un’opera di fantascienza che una pellicola in grado di influire né tanto meno influenzare la coscienza politica attuale.

 Resta tuttavia la validità di un lavoro che trae la sua forza dai materiali con il quale è costruito: i discorsi dei Weatherman si alternano a quelli di Malcom X, di Castro, dei reduci del Vietnam. I racconti dei militanti si incastrano dialetticamente con i comunicati stampa della polizia e dei membri del governo, con gli scontri tra le strade e nelle ribalte mediatiche. Il girato nelle basi underground si mescola con frammenti di altre pellicole che tentarono di descrivere quegli anni di lotte (The Year of the Pig dello stesso De Antonio – l’altro film proiettato nella giornata al Trevi – Attica di Cinda Firestone, di The Sixth side of the Pentagon di Chris Marker).

 Non viene meno il coraggio di chi ha pensato un film al limite dell’illegalità senza aver avuto paura delle conseguenze delle sue azioni, di chi – schierandosi con forte investimento della propria soggettività da un lato preciso della barricata – ha scelto l’andare in clandestinità (“going underground”) per dichiarare la propria non appartenenza a tutto ciò che di “buono” e di “decente” c’era in quella “Honky America”, compiendo un atto di sfida verso l’autorità costituita e un gesto di libertà d’espressione oltre i vincoli del mercato.

 E rimane a noi, sempre poco inclini a far uso della memoria, la testimonianza di una stagione che il neocapitalismo e il postmodernismo della comunicazione (riscontrabile già nell’italiana eversione della nozione di “popolo”) hanno cancellato in fretta dall’agenda delle alternative possibilità umane.

Salvatore Insana

 

 

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