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“The Quiet Family”: stereotipi e simulacri in Kim Jee-Woon

Il cinema dei margini da riscoprire. Rubrica a cura di Beniamino Biondi

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Il simulacro non è ciò che occulta la verità.

È la verità ciò che occulta che non esiste una verità”.

Jean Baudrillard

È opinione corrente, oggetto di consuetudini del giudizio e di altrettante risolute negazioni, che l’opera prima di un cineasta riassuma in qualche maniera i prodromi del suo futuro percorso; li ancora a sé e li svolge, giungendo a ricapitolazione di un universo interiore che viene al cinema come il concretamento di un miraggio. Se la pellicola fissa la visione, il cinema la statuisce. Così è anche per il primo film di Kim Jee-Woon, e lo è nel momento stesso in cui una simile ipotesi viene posta in crisi dal suo medesimo assunto ermeneutico. L’anno è il 1998, il titolo della pellicola è The Quiet Family[1], rivelato con successo al Far East Film di Udine l’anno successivo.

La trama, con le apparenze di una incognita linearità, è pressoché questa: dopo il licenziamento del padre, una famiglia si ritira in un vecchio cottage di montagna con l’intenzione di farne un albergo. Ma i giorni passano, e di clienti nemmeno l’ombra. Presto, fra i bizzarri membri della famiglia, inizia a serpeggiare il malcontento. Almeno finché non arriva il tanto atteso primo cliente, che però si fa trovare morto la mattina dopo l’arrivo. Spinti dalla necessità di non mandare all’aria il neonato business, la famiglia decide di seppellire il morto. Ma anche ai clienti che successivamente giungono nel cottage tocca la stessa sorte, e seppellire clienti morti diventa routine[2]. Sin dal principio, Kim Jee-Woon si pone come autore totale del film, che lui stesso scrive e dirige, e non assume alcuna forma di puerile incertezza nell’uso (pure smodato) degli stereotipi cinematografici sui quali, in fondo, si concatena il processo della traduzione per immagini. Lo stereotipo – dal greco stereos (solido) e typos (immagine), quindi immagine dura, e da ciò la sua provenienza dal linguaggio verbale tipografico – è una visione fondata su usi largamente condivisi e resi riconoscibili per determinate caratteristiche o qualità; in ambito culturale, il termine ha assunto il significato di rappresentazione immediatamente prevedibile con variazioni mobilissime fra neutralità e polarità. Il termine stereotipo, come molti altri termini di uso comune, è più facile da comprendere che da definire; sappiamo cosa esso sia, entro margini di relativa correttezza, ma concluderlo in un sistema compiuto espone il tentativo al disastro. Così la grammatica filmica di  Kim Jee-Woon, che sorge nella postmodernità e dunque nel rifiuto delle metanarrazioni cinematografiche e nella persistenza del dato espresso, piuttosto che sottrarsi alla mancanza di originalità, la sovraespone al punto di non ritorno, alla composizione originale di una serie infinita di elementi cinematografici assolutamente non originali: in ciò sta quel processo che si potrebbe definire della reificazione dello stereotipo. In questa dialettica fra invenzione e reificazione dello stereotipo l’immagine dura si trasforma in simulacro, rappresentazione di una divinità – il cinema – ormai totalmente desacralizzata e perciò filosoficamente impossibile.

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Il concetto di simulacro, che Gilles Deleuze declina eterosemanticamente come eterna ripetizione di un medesimo che non è simulazione ma oggetto-pensiero, qualcosa che tende continuamente ad altro, che si compiace e che crea in sé il proprio carattere di differenza, o, ancora più incisivamente sul tema della ripetizione – che nel film di Kim Jee-Woon è l’omicidio e le sue tecniche estenuate di occultamento -, “la degradazione assume la figura di una ripetizione che ricade su se stessa, di un eterno ritorno. Il tempo del mondo originario impone agli ambienti derivati, non un andamento lineare, ma quello di una eterna ripetizione”[3]. Il concetto di simulacro, presente in quanto eidôlon nel Sofista di Platone, viene ripreso da Jean Baudrillard[4], che, definendolo come “verità che nasconde il fatto che non ne ha alcuna”, propone una sua teoria dei modelli della riproduzione: lo specchio (riflessione della realtà), l’anamorfosi (imitazione spontanea della realtà), la finzione (assenza di predeterminazione di un modello) e il simulacro che “non ha alcuna relazione con qualsiasi realtà di sorta” e tuttavia risulta “vero”. In un reale oramai inevitabilmente frammentato e distorto – il medesimo del cinema amorfo per eccesso di forma come quello di Kim Jee-Woon – “Baudrillard riteneva che le peculiarità implicite nella società postmoderna screditassero l’approccio epistemologico moderno, finalizzato alla ricerca della verità generando una perdita di contatto con il reale, ormai inevitabilmente frammentato e dissolto.

La dialettica soggetto-oggetto della teoria moderna è totalmente scardinata dalla teoria dei simulacri di Baudrillard, che riconosce nella società mediatica e consumistica il potere attrattivo di immagini simulate, che distruggono e annullano la realtà. Le masse, in una prospettiva apocalittica e catastrofica, sono destinate ineluttabilmente ad implodere, a causa della simulazione diffusa che annienta la genuinità e l’autenticità delle relazioni interpersonali. Baudrillard sostenne che la distruzione della modernità e della teoria moderna, che egli aveva previsto nella metà degli anni settanta, fosse stata completata attraverso lo sviluppo della società capitalista e che gli attuali valori del sistema postmoderno fossero al limite, ipotizzando un collasso od un rovesciamento dell’ordine sociale”[5]. Ovviamente Kim Jee-Woon non si pone alcun problema di ordine filosofico e pensa la verità del cinema nella sua assenza di rapporto dalle cose: la reiterazione dell’omicidio non ha precipitati simbolici né slittamenti di senso, ma semplicemente è quella che è, nell’immediatezza dell’esposizione percettiva, al di là di qualsiasi altro significato. Per questa ragione il film è ben più di una semplice commedia nera sui tentativi di sopravvivenza di una eccentrica famiglia sudcoreana, ammettendo alla semplicità del giudizio la premessa analitica del processo stereotipo → reificazione dello stereotipo → simulacro.

Tornando al film, Kim Jee-Woon agisce in contrasto con l’ipotesi classica dell’opera prima quale contenitore per eccesso di idee e situazioni; qui tutto è banale, lineare, minimo, squisitamente ripetitivo. Non siamo e non possiamo mai essere al momento della maturità di Kim Jee-Woon, soprattutto sotto il profilo tecnico, eppure a sostegno del film troviamo il successivo remake di  Takashi Miike[6], che, colmando le lacune dell’originale, si risolve in un’evoluzione cinematografica che differisce prepotentemente dal suo modello. A ogni modo in Kim Jee-Woon colpisce quell’atmosfera di grottesco familiare – per buona parte il perturbante freudiano, “quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare” [7], che,  ancora, si definisce negli atti ripetitivi, nelle superstizioni e nei meccanismi semoventi – per cui alla commissione delle numerose nefandezze da parte di tutti i membri della famiglia replica la sensazione di una normalità che non possa mai nuocere né mutare dalla rassicurante dinamica tra azione e reazione. L’effetto è chiaramente parodistico per la coazione a ripetere delle numerose gags presenti nel film, ma niente affatto superficiale: la critica all’istituto familiare è ferocemente anarchica (così che per l’unità del clan si compie bellamente qualsiasi massacro), la contaminazione fra i generi (tipica di buona parte del cinema sudcoreano contemporaneo) sapiente e controllata, una produzione autentica di trauma attraverso uno humor nero europeizzante che muove in favore del più ampio pubblico.

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Kim Jee-Woon, nel tentativo di messa in scena della ripetizione, adotta uno stile estremamente personale che disorienta le immagini senza decostruirle; non contrattura in nessun caso la semplicità del soggetto con i modi del formalismo ma si ardisce in movimenti di camera raffinati e niente affatto casuali. Il senso di generale tenuta del film nasce proprio da questo, e non per ultimo dalla rifondazione del genere della house, laddove la casa non è più il momento originario del sovrannaturale ma un semplice contenitore di stranezze; in sostanza la casa che non è altro che una casa. La fisicità del film, che non mentalizza il crimine ma lo racconta en passant, è in questo luogo deputato all’azione, al nascondimento e all’intesa: uno spazio certo quanto misterioso, percorribile in ogni direzione ma pure stravolgente e labirintico, inumano e occasionale quanto silenziosamente complice dell’omicidio come soluzione ideale per il corretto svolgimento della propria vita. Ogni cosa si compie nel segno della contraddizione, come per gli stati d’angoscia generati dal film e immediatamente erosi da un’ironia sbracata, o ancora l’immediatezza delle soluzioni narrative come modi di capovolgimento di una più problematica premessa; davvero esemplari, in una vera e propria egemonia d’attori su queste dinamiche paradossali, il finto tonto Choi Min-sik e il maldestro Song Kang-ho, i due ferocemente compassati coniugi Park In-Hwan e Na Mun-Hee, le due inquietanti sorelle Go Ho-kyung e Lee Yun-seung. La serialità delle situazioni del film lambisce periodicamente la pellicola, con effetti di straniamento non casuale, con i riferimenti alla Corea del Nord e a i suoi conflitti ed esperimenti; nella casa, il più giovane figlio commenta con cieca violenza le notizie in TV di alcune spie nordcoreane sostenendo addirittura che “se capitassero da queste parti sarebbero da seppellire vivi”; nulla di diverso da quello che fanno – una coppia di fidanzati viene praticamente seppellita viva – e di conseguenza si finisce per confondere il piano della finzione col piano della realtà.

Tra i protagonisti del film, al margine della storia – ma col ruolo di protagonista abdicante a sé -, la figlia diciassettenne Mina che assume la funzione del coro; anche qui, un coro eccentrico e inesorabilmente disfunzionale. Mina fissa attonita quel che accade: con meraviglioso stupore o esacerbato rancore, nel contesto emozionale di chi non comprende quel che desidera. La dissacrazione e il paradosso finiscono all’evidenza; ma è un film, e nel finale tutti non possono che fare appello al silenzio del pubblico. Quando al cinema la malizia è genuina, la sua astuzia cresce; una dinamica di assoggettamento al consumo che Kim Jee-Woon conosce per il suo passato di scrittore teatrale e che adopera con scaltro e svagato cinismo rinunciando alla metafora per la normalità di una semplice famiglia della Corea del Sud. Sì che nella sequenza finale la famiglia, ridotta al martirio, ha mantenuto la sua unità, ma in fin dei conti sulla tavola imbandita si consuma un’illusione; gli omicidi hanno scandito il tempo e sulle loro trame hanno attecchito fratture personali, timori infantili, contrasti irrimediabili: la bieca ipocrisia del silenzio. Fine.

Beniamino Biondi


[1] Il film è disponibile in lingua originale con sottotitoli in italiano.

[3] Gilles Deleuze, L’immagine-movimento, tr. it., Milano, Ubulibri, 1984. Il riferimento è al film L’angelo sterminatore di Luis Buñuel.

[4] Soprattutto in Lo scambio simbolico e la morte (1976), Feltrinelli, Milano 1979, e Simulacres et simulation, Paris, 1981.

[5] Jean Baudrillard, in www.wikiartpedia.org.

[6] Katakuri-ke no kôfuku (2001), col titolo The Happiness of the Katakuris.

[7] Das Unheimliche (1919).

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