
Presentato come evento speciale al Mosaico d’Europa Film Fest, il film di Jeremy Saulnier (alla sua seconda prova nel lungo dopo aver esordito con Murder Party, una horror comedy divenuta presto di culto) ha il merito di sviluppare con la necessaria brutalità e asciuttezza di sguardo, a partire da un inizio un po’ farraginoso ma essenziale per la definizione della cornice sociale, l’escalation vertiginosa di una faida famigliare che lascerà sul campo non pochi morti.
In Blue Ruin la molla del racconto è il comprensibile desiderio di vendetta cui è soggetto Dwight, uomo solitario la cui esistenza degradata e ai margini della società ha un’origine chiara, ben localizzata nel tempo: la brutale uccisione dei genitori, gente dal passato non del tutto trasparente, da parte del giovane componente di una famiglia di vicini, che con la sua aveva avuto pesanti attriti. Quando costui esce di prigione la storia subisce una brusca accelerazione, Dwight dà inizio alla sua personale vendetta, tendendo un agguato mortale al tizio. I parenti della nuova vittima si mettono subito d’accordo per tentare di fargli la pelle. E anche la sorella di Dwight, secondo la più canonica ritualità delle faide, rischia di pagarne le conseguenze, proprio mentre un amico del protagonista decisamente fissato con le armi fornisce all’uomo tutta la materia prima, a lui necessaria per stroncare nel sangue la violenta reazione dell’altro clan famigliare. Si approda così a quel regolamento di conti finale, che renderà vano qualsiasi ulteriore tentativo di chiarire le rispettive ragioni, ragioni alle quali si sostituisce un differente potere decisionale, quello di chi ha le armi e la volontà di usarle.
Col palcoscenico della tragedia conclusiva sito in certi angoli depressi della Virginia, Jeremy Saulnier dimostra di saper dare connotazioni personali alla tempistica del “revenge movie”, lavorando in modo ansiogeno sulla componente spaziale della messa in scena (da un fuori campo potenzialmente ostile sibilano, senza preavviso, dardi e pallottole letali) e rafforzando così un plot sanguinolento, che sembra quasi partorito dalle amare considerazioni di un Michael Moore sull’America ridotta a incubo, dal proliferare di armi e squilibri sociali.
Stefano Coccia