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Taxidrivers Magazine

ORG e Fernando Birri. Per un cinema imperfetto

Re-visioni di percorsi sotterranei e sperimentali. Rubrica a cura di Salvatore Insana

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Parodia d’un discorso che non riesce a farsi e non vuole compiersi, scardinamento del linguaggio cinematografico piano, Org è l’opera misconosciuta di Fernando Birri, cineasta sudamericano ancora oggi, alle soglie dei novant’anni, attivo film-maker e inventore di mondi.

Org è un monstrum che ha visto passare sul suo corpo filmico tutti gli anni della grande contestazione (1967-78) prima di trovare un certo compimento. Prodotto da Terence Hill, con Mario Masini come operatore e Enrico Rava come autore delle musiche, fa contare 26625 tagli, immagini come entità pulsanti, ferite e ripetuti pugni in faccia alle leggi aristoteliche.

Il film parte da un vago triangolo amoroso, introdotto dal più celebre celebre aforisma di William Blake (“La strada dell’eccesso conduce al palazzo della saggezza”), e basato su “Le teste scambiate” il romanzo di Thomas Mann che partendo da una leggenda indiana muta in lotta sociale, diventando un racconto già definito dallo scrittore tedesco come “uno scherzo metafisico”. Sdoppiamento di teste e corpi: «Sita cerca allora di riporre le due teste mozzate sui rispettivi corpi, ma per la fretta e l’emozione scambia le due teste cosicché la testa di Shridaman sarà posta sul corpo atletico di Nanda, e viceversa».

Overlay e jumping cut. Sovrimpressioni. Audio che deraglia e non coincide con il visivo. Inintellegibilità pressoché costante dei pochi dialoghi presenti. E Birri inserisce nella stessa opera, con estratti d’interviste, la basi teoriche e metodologiche sulle quali il film poggia la sua “vertiginosa confusione”, per dirla con le parole del citato Rossellini. Un cineasta nuovo deve suicidarsi come cineasta.

 

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Un caleidoscopio di immagini e suoni, tra sitar e jazz (dicevano di Enrico Rava tra gli autori), citazioni e eccitazioni surrealiste, umorismo targato Peanuts, una partitura linguistica dadaista, una guerriglia per immagini, facendo convergere pop art (cartellonistica alla Lichtenstein), estratti d’interviste raccolte e rubate in strada (piazza Navona, 1969), in un continuo passaggio dall’animato all’inanimato (si veda l’orgasmo prolungato del frammento “Lo stallone e la gazzella”).

E una sorta di totatale autocontestazione. Due teste tagliate che per opera d’una sibilla elettronica si riattaccano ai loro colli ma a corpi invertiti (per errore??).  Allora a quel punto di chi è la moglie? Del corpo o della testa??

L’eccesso come manifesto diventa tanto proclama di battaglia quanto giustificazione di metodo: undici anni passati a disintegrare e assemblare, dissemblare, senza premeditazioni, senza condoni (né condom) dettati dal senso.

 

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Iniziato nel ’67, Org attraversa con la forza dirompente della poesia visiva le contingenze di più stringente e cruda attualità, per sottrazione di fotogrammi, sabotaggio della dimensione temporale, vanificazione dell’illusione di veder “ri-prodotta” la realtà come convenzionalmente (ovvero in forma di fiction) la si intende, laddove il corpo così come il discorso è scomposto e ricomposto con una frenesia di sinapsi che in vero potrebbe ben di più farci ri-vedere il meccanismo di funzionamento del pensiero. Con quella moltiplicazione infinita di impulsi sensoriali, di shock visivi, di scosse nervose, di agganci mentali nati solo dalla giustapposizione dell’imprevisto, colpi bassi dell’indeterminatezza o casualità determinate con cura, un viaggio intergalattico o neuronale, lacrime, urla mute, allunaggi dell’immaginario.

Un mago, un eco, un riverbero, un montaggio al limite del subliminale, un viaggio allucinante che fa il verso a Méliès, nella nostra “vecchia cara puttana terra”, nel 2000 e qualche cosa. E poi dormire furiosamente, ambiguamente, colti da una polisemanticità con-fusa che parte dal titolo: org come prefisso o suffisso di organo, organismo, orgasmo, orgia, etc..

Alla fine gli attori escono (ma non troppo) dai loro personaggi, discutendo del film stesso, della parabola etica dentro e fuori il film. Una sorta di ebbra e sconclusionata ammissione di resa, captatio benevolentiae che segue a un procedimento “bellico”, in cui la conflittualità tra le immagini va verso la sottrazione del visivo a favore della voce e poi il contrario, per una poetica in fase evolutivamente degenerativa, alla ricerca dell’invisibile, del transitorio, dell’insondato, per la sovversione del già assodato attraverso il procedimento compositivo tipico della poesia più visionaria.

Aldilà del fanatismo c’è gioia liberatoria, il comunismo è l’orizzonte auspicato ma costantemente irriso, tortura d’un morente post-mortem. Ripetiamo, con le parole di Juan Garcia Espinosa, grande amico di Birri: per de-condizionarsi da una forma culturale dettata dall’alto, un cineasta nuovo deve suicidarsi come cineasta.

Salvatore Insana

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