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Verso un mondo di automi e di perdite simboliche: breve ricordo del cinema di Federico Fellini

Più penso a Federico Fellini, più mi convinco sia stato un autore con tante e precise intuizioni intellettuali da esprimere e su cui lavorare, anche se non era un filosofo o un sociologo di professione, ma operava nel campo dell’arte

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Più penso a Federico Fellini, più mi convinco sia stato un autore con tante e precise intuizioni intellettuali da esprimere e su cui lavorare, anche se non era un filosofo o un sociologo di professione, ma operava nel campo dell’arte.

Una larga fetta della sua poetica ruota intorno ai temi dello spreco dell’energia sessuale e del benessere, dell’apparato dei media quale circo degli orrori e delle perversioni, del fallimento esistenziale del singolo e della collettività, del tempo che scorre e che ingoia e distrugge ogni valore, spiritualità e Weltanschauung che tenevano in vita l’uomo e la cultura popolare in passato.

E’ un regista che ha lavorato sul “vuoto” e sul senso della “perdita” guardandoli in faccia con una sincerità disarmante, ma anche (talvolta) con un velo di pietas rivolta alla condizione dell’umanità contemporanea narrata. Figura ricorrente nelle sue messe in scena, così dichiaratamente fantasmatiche e proiettive, è per l’appunto l’automa (simbolizzato il più delle volte dalle innumerevoli maschere e caricature del carnevale felliniano, sorte di ibridi perturbanti fra l’uomo, la bestia e l’attrazione/dispositivo ludico o spettacolare inanimato).

Mentre il contesto storico messo più pervicacemente a fuoco dalla varia filmografia pare a conti fatti la società dei consumi e dello spettacolo, imparentata talvolta ai cancri di un passato più o meno recente (sessuofobia/erotomania di matrice cattolica e miserie e demenze dell’Italia fascista, in primis).

Il_Casanova_di_Federico_Fellini

Il momento esteticamente più maturo e consapevole come insieme quello più ironico del cinema felliniano è rappresentato a mio avviso dal titolo Il Casanova (1976).

Accolto da alcuni commentatori alla sua uscita come un esercizio di stile freddo e gratuito (se non addirittura biecamente maschilista), questo lavoro pare oggi un lungometraggio densissimo di contenuti sociali e morali, un film profetico e ancora molto attuale, che riesce a parlare contestualmente sia alla testa che al cuore dello spettatore.

Di base, si tratta di uno spaccato clinico e perturbante sui circoli viziosi della “psicosi”, colta quale paradigma culturale della società dello spettacolo contemporanea; e di un saggio lucido, sardonico e pessimistico sull’atrofia e i risvolti demenziali della “facoltà dell’immaginazione”, in tempi di consumismo, società mediatizzata e investimento sulla pulsione libidica (maschile) quale risorsa psichica (e commerciale) disponibile, da parte del capitalismo e dello show-business.

Un’opera tanto radicale nel parlare del suo inferno socio-antropologico, tanto onesta e pietosa nel sussumerne ed esporne riflessivamente le logiche e i dispositivi latenti, da suscitare rispetto e commozione.

Francesco Di Benedetto

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