“È il 1962, i missili russi a Cuba minacciano il benessere statunitense e George Falconer (Colin Firth), professore universitario di cinquantadue anni, vive un profondo lutto dovuto alla perdita del compagno…”
Quel morto vivente che è il cinema – insieme spettrale di fotogrammi immobili che magicamente si anima attraverso l’automaticità del movimento, e dispositivo autogenerato dal proprio meccanismo – probabilmente stanco d’esser visto, comincia esso stesso ad osservarci, rielaborando la topologia dello spazio che ospita la liturgia della visione, e neutralizzando una consistente quota dell’egemonia esercitata dallo spettatore. Questa è la suggestione prepotentemente evocata da A single man, primo lungometraggio di Tom Ford, in cui le questioni trattate e le riflessioni che ne derivano sono letteralmente scagliate contro la quiescenza multiculturalista dell’emancipato osservatore postmoderno, causandogli un fastidioso capogiro.
È il 1962, i missili russi a Cuba minacciano il benessere statunitense e George Falconer (Colin Firth), professore universitario di cinquantadue anni, vive un profondo lutto dovuto alla perdita del compagno, Jim (Matthew Goode), deceduto in un incidente stradale. George non può far altro che indugiare in uno stato di sospensione, per elaborare l’accaduto e tentare di collocarsi all’interno di un nuovo ordine simbolico in cui ricomporre i brandelli di senso rimasti.
La gratuità della violenza (l’imminenza della guerra nucleare) e l’innocenza della casualità del fato (la morte accidentale della persona amata) sono magistralmente restituite da Ford in una prodigiosa sequenza, in cui la piccola figlia degli ultra conformisti vicini di casa del professore afferra delicatamente tra le mani una farfalla variopinta e, come se niente fosse, la schiaccia, mostrando traumaticamente l’indifferenza operante nell’economia dei fatti, troppo spesso sostenuta da ragioni apparenti. Quali furono i motivi che spinsero i nazisti a compiere l’Olocausto, o la puritana middle-class americana, durante gli anni sessanta e settanta, a condurre un’insulsa crociata catto-perbenista contro gli omosessuali? Queste sono le riflessioni che George Falconer pone ai suoi studenti, sottolineando come l’invisibilità delle minoranze sia l’elemento che catalizza la paura, motore propulsivo di ogni persecuzione.
“La paura mangia l’anima” diceva Rainer Werner Fassbinder, e nessuno, neanche il più tollerante dei progressisti, ne è completamente immune. Ecco perché, in un’altra memorabile sequenza, lo sguardo fisso di un personaggio di un cartellone pubblicitario riempie, per alcuni secondi, l’intero schermo, non permettendo allo spettatore di poterlo evitare, inchiodandolo alle proprie responsabilità e obbligandolo ad un rinnovato esame di coscienza. Ecco perché il cinema ci guarda.
La temporalità della soggettività costituisce l’altro tema importante della pellicola, laddove troppo spesso fallisce la corretta collocazione tra le tre dimensioni (presente, passato, futuro).
Ford c’invita a proiettarci nel futuro, per essere sempre pronti all’incontro con la morte, tanto che il nostro protagonista, una volta riacquisita la speranza, è colto da un liberatorio infarto. E, in un certo senso, la temporalità è sempre orientata dall’avvenire ma, piuttosto che rimettersi all’assoluta indecidibilità del futuro, meglio sarebbe optare per la decidibilità limitata del futuro anteriore, dando spazio a quel vuoto di libertà dove fede e conoscenza miracolosamente s’incontrano.
Luca Biscontini
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