La donna ideale di Von Trier
Il 3 aprile. Da questa data il pubblico italiano potrà finalmente confrontarsi con la prima porzione (probabilmente la più fresca e ‘innocente’) della riflessione che Lars Von Trier dedica alla donna. La sua ossessione, da sempre. Nymphomaniac, visto alla Berlinale nel Volume I, nell’indebita scissione-troncatura (il volume) che svuota sostanzialmente di credibilità narrativa un flusso che si trasforma in capitoli (nel cinema automaticamente traslati più verso la fiction in senso stretto, ma il pubblico non è ancora pronto per uno sguardo lungo 4 ore, e il prolifico ipercinetico danese si è dovuto arrendere alla pura praticità fruitiva), è la visione-rappresentazione dell’idealizzazione dell’essenza femminile che il regista danese tenta di fissare-catturare da anni. Joe (da adulta nel corpo ed indole inquieta, sensibile e femminile della Gainsbourg), è un essere speciale. E’ in primis una ninfa (incarnata nella sua giovinezza dalla splendida Stacy Martin), dotata di una sensibilità estremamente sottile, immersa sin dalla più tenera età nella bellezza che suo padre (un irriconoscibile adulto Christian Slater, nel dolce e anch’esso speciale modello di uomo che offre), il primo essere maschile che la plasma, le regala: insegnandole a guardare la natura e la vita con estrema poesia e raffinatezza. Joe è perciò naturalmente isolata nella percezione di se stessa e di ciò che la circonda e il sesso è il filtro che la giovane mette tra sé e il mondo. Von Trier sa che il sesso è qualcosa di ‘eterno’, chiave d’accesso all’oltre e a se stesso insieme…
E’ Joe adulta, a terra, completamente abbandonata a sè, picchiata e ferita, coperta dalla pioggia, che incontriamo per prima. Sarà lei, soccorsa da Seligman (Stellan Skarsgård): vecchio-saggio-mentore solitario, ad introdurci nel racconto della sua ninfomania. Dalle scoperte infantili, alla perdita della verginità, al gioco del ‘‘vieni maschio’’ che ha come posta ambita un pacchetto di caramelle, ai primi orgasmi provati. E all’arrivo dell’attrazione, che aggancia Joe proprio attraverso la bellezza, percepita nell’eros che è anche grazia di tocco di mani, di movimenti, eleganza. Sorte (decisa da Von Trier in chiave lampantemente anti-dissacratoria) vuole sia proprio Jerôme (Shia LaBeouf, il giovane intento a riparare una moto scelto da Joe per l’iniziazione alla fine della propria verginità), anni dopo, ad incarnare un sentimento da sempre esorcizzato-osteggiato-combattuto dalla ninfa con la propria ninfomania: l’amore. L’amore che compromette (differentemente dal sesso), il legame con l’oltre (inframezzandosi, ostacolandolo), e il piacere (vissuto sempre isolatamente nella molteplicità degli atti sessuali che Joe consuma come un gioco), piacere che con Jerôme non riesce più ad uscire, a riconoscersi.
E qui mi fermo, in attesa di un cambio di passo, di una rivelazione, nella seconda parte che attenderà anche me nelle sale (il 24 aprile). Perché Lars Von Trier confonde bene le carte. Ancora non ho capito dove voglia andare a parare – altrimenti scritto: perché se la riflessione imbastita si limita a questa rappresentazione, la Ninfomania di cui il genietto dispettoso danese si appropria, cela sembianze altre. Di una figura femminile nella sua veste più rarefatta, inquieta, ‘superiore vagina’, alla ricerca della vera anima delle cose, di se stessa. Dentro uno stile al suo solito ‘cinico’, dissacratore, divertito, nel giocare con modelli-stereotipi, nell’invertire anche il prevedibile che a lui possa essere associato, nel rappresentare con asetticità le esperienze sessuali della sua ninfa, Von Trier riesce a catturare porzioni di verità anche qui. Una delle sequenze più alte, visiva e di senso, è il salire le scale di Joe, appena abbandonata la sua verginità: quell’incedere di spalle barcollante, disallineato, illuminato-sfocato da un sole abbagliante ed etereo segna in modo sublime un attraversamento di confine, di dimensione: Joe è rotta dentro e fuori. Pronta a sperimentare la ricerca dell’altro da sé a cui è votata.
Maria Cera