Anno: 2013
Durata: 89′
Genere: Drammatico
Nazionalità: Polonia
Regia: Bodo Kox
La mia incursione al Riff quest’anno è stata purtroppo una toccata e fuga, ma scelta e caso hanno fatto sì che potessi imbattermi in un giovane regista polacco capace di raccontare con levità immaginativa un ‘senza prendersi troppo sul serio’ denso di vita. The Girl From The Wardrobe di Bodo Kox è una bella boccata di aria fresca, nella quale veniamo gettati immediatamente grazie ad una fotografia capace di soggettivizzare-idealizzare spazi periferici urbani di una Polonia per nulla statica e banale. Merito di uno sguardo mai perfettamente allineato, in cui l’occhio della macchina da presa entra dentro prospettive trasversali, come quelle che le esistenze dei nostri protagonisti ci mettono davanti.
Jacek e Tomek sono due fratelli, uniti reciprocamente in una solitudine di sangue ed esistenziale. Tomek (il bravo sognatore Piotr Głowacki) vive in una implosione emotiva, vittima della sindrome di Savant. Abbagliato come un bambino dal cielo, da oggetti osservati ‘ossessivamente’ con tenerezza, chiuso in un mutismo perenne. Jacek (il vulcanico Wojciech Mecwaldowski), del pari alienato in un lavoro freelance da webmaster, condizionato dalla gestione di un fratello che oscilla dall’attaccamento inconscio al peso insostenibile, giostra lavoro, Tomek e sesso-amore, alla ricerca della donna ideale. Il loro pianerottolo non se la passa meglio: la signora Kwiatkowska (l’acida Teresa Sawicka) single ultra60enne, pettegola-sadica, e Magda, ‘la pazza che finirà per uccidere tutti’, etera creatura (perfettamente incarnata da Magdalena Różańska) dedita alla sperimentazione di differenti dimensioni esistenziali, che confonde spesso i piani allucinando la realtà e le persone che la attraversano. Tutti prigionieri e liberi nel vivere a modo proprio, assecondando se stessi. Dentro questo universo, al quale si unisce un esterno parimenti desueto, specie il protettivo poliziotto-sceriffo (l’umanissimo Eryk Lubos, ironicamente irresistibile nell’eccessiva premura che esterna), veniamo trasportati in un flusso di piccole verità sapientemente rivelate di traverso: tutta la densità di un legame di sangue, fratellanza così solida, nell’incontro di due ‘follie’ che si sostengono a vicenda, e nella protezione di Tomek, che Jacek pone sempre prima di se stesso. Il disordine esistenziale dello stesso Jacek, che afferra ciò che la realtà gli offre alla ricerca di un cordone ombelicale a cui unirsi per sempre. E la splendida Magda, che rifugge il mondo nascosta in un armadio e negli allucinogeni, cercando l’appagamento interiore e sensuale nelle allucinazioni estatiche di una foresta luminosa, verdeggiante, calma, protettiva: l’io riflesso nella simbologia del pittore Henry Rousseau, dei suoi paesaggi onirici, selvatici, placidi. L’implosione di Tomek non può che accendere un canale comunicativo diretto con Magda, unendoli in una ‘fuga’ esistenziale inevitabile.
Dentro una realtà di margine, urbana e di vissuto, Bodo Kox e la sua immaginazione si insinuano con una tale spontaneità attraverso simboli, poesia, ironia, sentimento e l’irreversibilità delle cose, che il dentro-fuori si annulla, e il mondo diventa un al di là col quale escogitare vie di fuga alternative rispetto ad una ordinarietà sempre più incapace di farci guardare a fondo ciò in cui siamo immersi e noi stessi.
Maria Cera