Se l’impresa di riassumere la poliedricità del grande cinema europeo attraverso un numero incredibilmente esiguo di titoli era stata quanto mai difficoltosa, quella che mi accingo a compiere in questo penultimo episodio forza i limiti della mia -scarsa- capacità di selezione, virandoli verso un apice estremo. Seguirò lo stesso criterio della volta precedente -in linea di massima, un solo film per regista- ma mi imporrò, diversamente dallo scorso episodio, un tetto massimo di nomi: solo cinque. La ragione è più semplice di quanto sembri: di fronte allo sterminato -e finora inesplorato all’interno di questa rubrica- territorio delle cinematografie dell’Est, sarebbe fin troppo facile prodigarsi in liste infinite e fin troppo comodo strizzare un occhio da una parte e dell’altra, rischiando di perdersi in un poco approfondito e dunque sterile ventaglio di titoli e nomi. Rischiando magari, nonostante le dovute accortezze, di omettere altrettanti imprescindibili a causa della (senza dubbio) incompleta conoscenza di tale vastissimo e affascinante mondo da parte di chi scrive. Dunque solo cinque registi, in un andirivieni (nel tempo e nello spazio) confuso e asimmetrico che tenterà di esplorare i caratteri peculiari di estetiche cinematografiche drasticamente diverse da quelle finora esplorate eppure capaci a volte di prenderle a modello o più spesso di influenzarle in modo radicale e incontrovertibile.
Andrej Tarkovskij e il direttore della fotografia Sven Nykvist
Muovendomi verso est, non posso che iniziare la mia ricognizione a partire dalla (fu) Unione Sovietica dalla quale, vista la sua sterminata estensione (e polivalenza) geografica e culturale, pescherò eccezionalmente due autori, strutturalmente diversi per la natura strettamente ontologica della loro arte eppure incredibilmente simili dal punto di vista delle suggestioni a cui danno vita.
Il primo nome è quasi scontato, vista la sua rilevanza imprescindibile all’interno della storia del cinema moderno oltre alle numerose voci autorevoli strenuamente attive a porlo in modo insindacabile come il più grande cineasta mai esistito.
Si tratta ovviamente di Andrej Tarkovskij, poeta del cinema, creatore di un unicum artistico di insuperata potenza capace di unire una mai più raggiunta attenzione pittorica nei confronti dell’immagine (in generale, la fotografia dei film del regista sovietico si dà come un apice tuttora difficile da eguagliare) a una riflessione di profondità inaudita sul contemporaneo, capace di trascendere i particolarismi topografici e nazionali per porsi a un livello universale. Il tutto arricchito da un simbolismo diffuso di matrice poetica che rende i suoi capolavori dotati di una complessità di echi e richiami che tende -come in poesia- all’arricchimento infinito del senso e dai retaggi di una cultura sterminata che dalla pittura sfocia nella letteratura e nella grande tradizione musicale.
Il celebre ritmo contemplativo, ieratico, sacrale dei film di Tarkovskij che trova nel piano-sequenza la sua cifra stilistica più rigorosa, l’insistenza quasi ossessiva sul valore del silenzio, il ricorrere dei dettagli, dei simboli spesso svincolati dal flusso narrativo, etichettati dai detrattori come tasselli di un’opera fastidiosamente vuota, autoreferenziale e formalista, si pongono in realtà come gli unici possibili significanti di una riflessione quanto mai universalizzante (e quanto mai attuale) sul mondo contemporaneo. Nell’era della meccanizzazione dell’esistenza, della sopraffazione del naturale all’artificiale, dell’esplosione incontrollata del rumore (delle fabbriche, delle automobili, della tecnologia, degli schermi televisivi e -oggi- informatici), della proliferazione del vacuo e del materiale, della sottomissione dell’uomo al Tempo (padrone), Tarkovskij propone un’arte che descriva l’utopia ormai irraggiungibile del silenzio del mondo, che sublimi in sé l’ideale umano di riscoprire il Tempo come possibilità e non come urgenza. Tutte le creazione tarkovskiane proiettano il pubblico in un non-luogo astratto dalle dinamiche del mondo, in cui il tempo scorre in modo diverso e in cui questa differenza permette ai personaggi di dedicarsi a sé stessi, di scoprirsi. Una ricerca che conduce sempre a uno scacco insanabile, all’impossibilità di trascendere da quel rumore del mondo che ci ha risucchiati definitivamente. In questo senso, l’opera che ho scelto di analizzare all’interno di un panorama che contempla solo ed esclusivamente capolavori assolutamente imprescindibili è Stalker, perché a mio avviso è quella che meglio incarna tutto il senso della riflessione del cineasta sovietico.
Stalker (Сталкер), Andrej Tarkovskij, 1979
Il film, tratto dal romanzo di fantascienza Picnic sul ciglio della strada dei fratelli Arkadij e Boris Strugackij, è -come accade in quasi tutta la produzione tarkovskiana- la storia di un viaggio verso un’oltre dominato da leggi fisiche differenti da quelle che regolano la vita sulla Terra, e come tale capace di produrre negli uomini che lo attraversano una capacità nuova e differente di riflettere su di sé.
Lo stalker del titolo è un individuo incaricato di condurre degli uomini caratterizzati da una certa profondità di spirito nella Zona, un luogo circondato da una cortina di ferro e salvaguardato da drappelli militari (variamente interpretato dagli studiosi specializzati secondo un’ottica politica, sociale, metafisica), all’interno della quale è ubicata una stanza in cui è possibile vedere esauditi i propri desideri più reconditi. Il film racconta della penetrazione in questo spazio alieno (si sussurra in più occasioni che abbia acquisito i propri poteri in seguito alla caduta di un meteorite) dello stalker, di uno scrittore e di un professore, i due poli del sapere umano -artistico l’uno, scientifico l’altro- che passo dopo passo fanno emergere la propria terranea e inconscia somiglianza.
All’intero della Zona si assiste più che mai all’emergere di una spazio-temporalità altra, svincolata dal pragmatismo che domina le vicende umane e aperta invece al mistero, all’inconoscibile, all’impossibilità di spiegare e replicare, a un legame più archetipico e recondito con la Natura che pare -a detta dello stalker stesso- rispondere agli stimoli di chi calca il proprio suolo. Il percorso all’interno della Zona dei tre personaggi ormai tragicamente corrotti dal materialismo delle società globalizzate si dà dunque in prima istanza come bagno purificatore, come itinerario teso a rovesciare drasticamente le priorità dell’uomo contemporaneo: all’attenzione per le Cose, la Zona sostituisce quella per il Sé, alla disumanizzante velocità delle macchine impazzite, la lentezza quasi sacrale del viaggio all’interno del proprio Io, alla razionalità borghese la tensione all’inconoscibile, all’inesplicabile, cioè all’arte. In pratica, anche a una prima lettura, Stalker si dà definitivamente come arte totale che si interroga su sé stessa, sul proprio posto in un mondo privo di tempo, sul proprio eco salvifico, troppo spesso inascoltato. Non è un caso che in più di un’occasione i personaggi si domandino “Che senso ha stare qui?” o che in uno dei momenti più liricamente accesi, lo Scrittore interviene in modo fermo in un discorso sul senso della vita e -quasi facendosi portavoce dell’autore- ammette: “Tutta questa vostra tecnologia, tutte queste fabbriche e marchingegni, e tutto questo agitarsi affannosamente per poter lavorare di meno e mangiare di più: non sono che stampelle, protesi. L’umanità invece esiste per creare. Per creare opere d’arte. Questa perlomeno è disinteressata, a differenza di tutte le altre azioni umane”.
Un percorso di spoliazione e (re)iniziazione che tuttavia rivela tutta la sua fallibilità. Nel finale, infatti, i protagonisti abbandono la Zona senza accedere alla Stanza dei Desideri e ritornano alla meschina e dolorosa bassezza del mondo esattamente come erano partiti, solo più consapevoli della propria personale incapacità di prescindere dalle categorie disumanizzanti del mondo contemporaneo. In questo senso, lo stalker, disperato del fallimento della sua missione, si pone come novello Messia che all’interno di una ciclica e disperata ripetitività del Tutto, di nuovo non è riuscito a salvare la sua umanità, di cui i due “apostoli” sono evidentemente una sineddoche (“Sapeste come sono stanco. E si sentono anche intellettuali questi scrittori, professori. Non credono più a niente, l’organo con il quale crediamo gli si è atrofizzato. Dio mio che gente, hanno gli occhi vuoti. Pensano soltanto a come tenere alto il loro prezzo, a come vendersi più cari, a farsi pagare tutto, anche ogni moto dell’anima […] la gente così può credere a qualcosa? […] nessuno crede più, non soltanto quei due, nessuno, chi posso portare là?”). Un’interpretazione cristologica che peraltro condurrebbe il capolavoro di Tarkovskij su binari straordinariamente prossimi a quelli di Sul globo d’argento di Zulawski, altro film di una ricchezza e una complessità inesauribili di cui abbiamo parlato nello scorso episodio.
Stalker (Сталкер), Andrej Tarkovskij, 1979
Eppure, parlando di Stalker in un orizzonte intertestuale, non posso prescindere dall’evidente affinità che il film condivide con quello che ancora oggi dopo quasi cinquant’anni viene considerato il più alto risultato raggiunto dal cinema di fantascienza (e non solo) -2001: Odissea nello Spazio– minando alla radice lo storico pregiudizio critico che vuole in Solaris (altro straordinario capolavoro di Tarkovskij) “la risposta sovietica al 2001 kubrickiano”.
Ancor più che il precedente Solaris infatti, Stalker si propone come un viaggio verso un ignoto che a poco a poco finisce per coincidere con la propria interiorità e inoltre, sposando l’interpretazione cristologica di cui sopra, Stalker si propone insieme come odissea dell’eterna erranza ma soprattutto dell’eterno ritorno. In modo più netto di Solaris, inoltre, Stalker riprende i motivi fondamentali della sopraffazione del meccanico sull’umano così strutturale del 2001 kubrickiano e, come questo, si organizza in una forma-labirinto che si dia come “struttura delle strutture”, opera aperta e irriducibile all’univocità di una lettura oggettiva bensì come-riprendendo ciò che Kubrick disse a proposito del suo capolavoro- “un’esperienza visiva, che aggiri la comprensione per penetrare con il suo contenuto emotivo direttamente nell’inconscio”.
Andando più in profondità, poi, è l’analisi congiunta dei due -straordinari- finali a suggellare la serie di comunanze formali e contenutistiche sopra indicate e a rivendicare una definitiva analogia tra questi due imprescindibili della settima arte. Come noto 2001 si chiude con l’immagine dell’inquietante quanto affascinante Star Child che lentamente ruota su sé stesso fino a guardare direttamente in macchina, come a rivendicare la necessità di uno sguardo nuovo del cinema e insieme a riferire al suo pubblico di impegnarsi a guardare il mondo con occhi nuovi, diversi. Anche Stalker si chiude sul primo piano ravvicinato di un rappresentante dell’infanzia, la figlia del protagonista, che con il volto poggiato sul tavolo, spinge con la forza del pensiero due bicchieri e una bottiglia lungo la sua liscia superficie. L’interpretazione di questa ultima sequenza è legata a un brevissimo frammento della prima parte del film nel quale lo Scrittore, prima di entrare nella Zona, afferma a chiare lettere che “la telecinesi non esiste”. Tarkovskij oppone a quella breve -e dimenticabile- battuta di dialogo capace di incarnare in sé tutta la disillusione di un mondo che ha perso la fede nell’inconoscibile, nell’inesplicabile e nell’arte che ne è manifestazione, un finale in cui la telecinesi ha effettivamente luogo -coronata in sottofondo dalla forza dell’Inno alla gioia di Beethoven che suggella la rinascita dello sguardo- ponendosi in tal senso come una splendida quanto criptica elegia del valore dell’inspiegabile artistico e -al pari di 2001– come un disperato e commovente appello rivolto al pubblico, a cui prega di superare le limitanti, materialistiche e opprimenti limitazioni del nostro mondo meccanizzato per imparare a guardare le cose attraverso una meraviglia antica, primordiale, disinteressata. Quella dell’arte.
Il racconto dei racconti (Сказка сказок), Yuri Norstein, 1979
L’altro regista sovietico che mi propongo di omaggiare in questo penultimo episodio appartiene a una particolare interzona della settima arte alla quale finora non mi sono mai avvicinato: l’animazione. E di questa rappresenta -a detta di un numero sterminato di addetti ai lavori- uno dei massimi maestri, se non il più grande in assoluto. Parlo ovviamente di Yuri Norstein, personalità fondamentale per il processo di evoluzione -e rivoluzione- che investì le produzioni animate sovietiche a partire dalla fine degli anni ’60. Prima di quella data, anche l’animazione -come qualsiasi prodotto culturale- era infatti rigidamente sottoposto a una forte attività censoria e questo comportava l’obbligo -per i cineasti- di realizzare opere di tono infantile, dalle trame semplici e i contenuti ottimistici, depurate da qualsiasi traccia che potesse rinviare -seppur labilmente- a sottotesti politici o addirittura rivoluzionari. Fu proprio Yuri Norstein a forzare per primo i limiti di tale sistema produttivo, cominciando a proporre sin dalla fine degli anni ’60 brevi film animati, dominati da temi rivolti a un pubblico anche e soprattutto adulto e caratterizzati da una forsennata sperimentazione creativa che rinviava ai maestri delle arti figurative russe o agli esperimenti di montaggio di un cineasta come Ejzenstein, dando vita di fatto a una nuova estetica del film animato, capace di innalzare finalmente tale forma cinematografica al pieno statuto di opera d’arte e di conferire a lui stesso l’etichetta di “poeta” dell’animazione russa. E per illuminare la grandezza della sua opera non potevo che scegliere il suo film più ambizioso e quello che con i suoi 28 minuti di durata costituisce il suo lavoro più lungo. Si tratta de Il racconto dei racconti, nominato a Los Angeles e Zagabria il “miglior film animato di tutti i tempi”, che già dal titolo si pone come “struttura di tutte le strutture” e “storia di tutte le storie”. A differenza dei precedenti -meravigliosi- La Volpe e la Lepre, L’Airone e la Gru o Il Riccio nella Nebbia, nei quali il regista russo attingeva allo sterminato patrimonio delle antiche fiabe russe, giungendo a utilizzare come personaggi animali antropomorfi attraverso cui illuminare in modo indiretto difetti, indecisioni e angosce di un popolo e di una nazione, con Il racconto dei racconti la narrazione classica imperniata su una rigida logica causale viene abolita per lasciar spazio al flusso incantato della memoria, individuale e collettiva. In questo senso, Norstein giunge al suo vertice sperimentale, adagiando il ritmo diegetico sul procedimento modernista dello stream of consciousness, e realizza un capolavoro di potenza e lirismo tutt’oggi insuperati nel campo dell’animazione che si nutre della lezione di Tarkovskij e in particolar modo del suo Specchio, nel quale il cineasta di cui poco fa abbiamo parlato ricostruisce in modo analogico i propri ricordi, alternandoli a simbolismi spesso tesi a mettere in scena momenti decisivi della storia russa e sequenze oniriche. Allo stesso modo si comporta Norstein nel suo Racconto dei racconti, imperniato sulla ricorrente figura di un animale -stavolta un lupo- che pare guardare, immaginare e rievocare passo dopo passo un mondo abbandonato da tempo, forse una sineddoche dell’infanzia perduta, vero e proprio leitmotiv del film. In questo senso, i 28 minuti in cui si snoda questo poetico e visionario cortometraggio sembrano porsi come la successione asimmetrica, alogica e atemporale delle immagini di un tempo perduto, apparentemente cancellato dallo scorrere delle primavere ma sempre pronto a ritornare. Si passa così dalle atmosfere sospese e oniriche dei sogni infantili, dominati da mostri carezzevoli che saltano la corda con allegre bambinette, alle ninnananne stonate; dai lenti balli di coppia sulle note soffuse di un tango polacco, all’orrore della guerra, del fronte, della morte (resa con immagini di rara intensità); dalle immagini del focolare, del calore domestico a quelle della neve che stende il suo velo e a poco a poco minaccia tragicamente di far scomparire una mela, leggibile in un parallelo con lo slittino del Quarto potere di Welles come la traccia recondita dell’innocenza, il dolce archetipo dell’infanzia, della fusione panica col tutto. Quello che Angelopoulos avrebbe chiamato “il primo sguardo”.
Rashomon (羅生門), Akira Kurosawa, 1950
Dopo i paesi sovietici, il mio discorso vira momentaneamente verso l’estremo Oriente e approda in Giappone, territorio quasi sacro -cinematograficamente parlando- per il numero di nomi a dir poco imponenti che conta tra le sue fila. A questo proposito, è necessario premettere che è assolutamente impossibile tratteggiare con cura lo straordinario fervore cinematografico che animò il Giappone della seconda metà del ‘900 senza delineare i profili di almeno una decina di cineasti e che il fatto che la mia scelta sia caduta su Akira Kurosawa non implica necessariamente l’idea di una superiorità della sua opera rispetto a quella di un Mizoguchi, di un Ichikawa o -spingendosi verso la successiva generazione di autori della cosiddetta nouvelle vague giapponese- di un Oshima. Ho scelto Kurosawa perché più di ogni altro regista ha dimostrato di saper coniugare una consapevolezza estetica del proprio mezzo straordinariamente avanzata con una capacità raramente eguagliata di parlare a tutti, di raggiungere le masse. Ho scelto Kurosawa per la sua inarrivabile capacità di fondere arte e spettacolo, poesia e azione, autorialità pura e anelito universalizzante, all’interno di un continuum incredibilmente vasto e vario, sfaccettato e multiforme. E nel tentativo di illustrare quanto il suo lavoro sia riuscito a influenzare in modo drastico la storia del cinema, fino a dirottare la sua traiettoria verso altri, diversissimi lidi, ho deciso di fare un piccolo passo indietro rispetto al canone temporale utilizzato finora per Tarkovskij e Norstein per tornare all’esatta metà del secolo scorso: a quel 1950 che vide la comparsa di quel capolavoro imprescindibile e destinato a modificare i caratteri del cinema d’arte mondiale di nome Rashomon, identificabile come film sulla multiformità del Tutto, sull’impossibilità di cogliere l’univocità del reale, sull’assenza della verità. Un’opera capace di condensare decenni di sperimentazione estetica, di farsi portavoce cinetico delle conquiste raggiunte dalla avanguardie storiche come il Cubismo. Con Rashomon, Kurosawa rende il senso di multiprospettivismo, di frammentazione e di relativismo a cui autori come Picasso e Braque diedero forma, decostruendo il reale nei suoi innumerevoli possibili punti di vista, annullando di fatto il concetto positivistico di una realtà univoca e instaurando un regime ontologico ben più problematico, fondato su un’idea di essere come potenzialità, configurazione tra le altre configurazioni. Il regista giapponese trasferì tali premesse estetiche e filosofiche nell’orizzonte del cinema, costruendo semplicemente un’avvincente storia di interpretazioni contrastanti. Lo scenario di Rashomon è quello del Giappone Heian (era compresa tra l’VIII e il XII secolo): due uomini che tentano di ripararsi dalla pioggia battente iniziano una conversazione. Uno dei due dichiara di aver assistito a un processo giudiziario, del quale riporta tutte le testimonianze. Il motivo del contendere è lo stupro di una ragazza e l’uccisione del suo marito samurai avvenuti per mano di un brigante ma le versione fornite dai vari personaggi cozzano l’una contro l’altra, divergono di scarti netti e non giungono a restituire una visione definitiva e oggettiva dell’accaduto, esattamente come accadeva nel già citato Quarto potere. Nel finale lo stesso racconto del narratore diventa passibile di interpretazione e lo spettatore arriva a chiedersi se non si tratti semplicemente di un racconto fittizio, di un’affabulazione con cui il personaggio che racconta ha intrattenuto per un’ora e mezza il personaggio che ascolta. In una sorta di raddoppiamento del gioco filmico e della figura del regista che per lo stesso arco di tempo ha tenuto lo spettatore incollato alle poltrone. In questo senso, Rashomon mette in atto quelle pratiche di autoriflessività, metacinema, distruzione dell’ordine causale dell’azione e di quel principio di linearità e univocità del senso propria del cinema (e in generale della narrativa) tradizionale e sua sostituzione con una struttura aperta e duttile, capace di fungere da modello non solo per le Nouvelle Vague che dieci anni dopo avrebbero cominciato a proliferare in Europa ma anche per quel cinema postmoderno che Leone e in generale un certo cinema americano avrebbero inaugurato a cavallo tra ’80 e ’90.
Il lamento sul sentiero (Pather Panchali), Satyajit Ray, 1955
Dal Giappone all’India, da Kurosawa a Satyajit Ray, da Rashomon alla cosiddetta trilogia di Apu, il trittico di film che descrive la crescita -dall’infanzia alla paternità- di un giovane nato in una famiglia di bramani nell’India degli anni ’20 e ’30 del Novecento. All’interno di un circuito altamente canonizzato come il cinema classico indiano, costituito da trame appiattite su contrasti stereotipati, Ray si mosse prima di tutto in qualità di giovane cinefilo e istituì uno dei più importanti cineclub indiani, nel quale imparò a conoscere il grande cinema d’autore europeo e statunitense. Lavorò a fianco di Renoir prima e a Londra poi, città in cui vide per la prima volta Ladri di biciclette di De Sica, in seguito al quale -leggenda narra- decise di diventare regista. E in effetti il debito che emerge dal cinema di Ray e in particolare i tre film di quella trilogia di Apu (Il lamento sul sentiero, Aparajito e Il mondo di Apu) che esportò per prima il suo nome in tutto il mondo, nei confronti del neorealismo italiano è pressoché innegabile. Non si tratta soltanto di assonanze produttive, legate ai bassi o bassissimi budget con cui il regista indiano si trovò a lavorare soprattutto sul primo tassello della trilogia, né esclusivamente della volontà tutta rosselliniana di vivisezionare il reale, cogliendolo nella sua fattualità più immediata, riprendendo in esterni e lavorando con attori non professionisti o di quella zavattiniana di pedinare i propri personaggi nella loro piccola, insignificante -eppure carica di pregnanza- quotidianità. Ciò che davvero lega a doppio filo il cinema di Satyajit Ray all’estetica neorealista è una comune tensione alla modernità, una forma artistica differente da quella propria della narrazione tradizionale che il filosofo e teorico del cinema Gilles Deleuze definiva immagine-tempo, una costruzione capace di emancipare l’immagine stessa da qualsiasi subordinazione di tipo narrativo e in questo senso in grado di porsi come spartiacque definitivo tra un “prima” e un “dopo”. Mentre prima tutto era in funzione dell’azione, l’immagine di Ray sprigiona il tempo, aprendosi agli “ambienti vuoti”, agli “spazi qualsiasi”, alle lunghe attese. Una nuova immagine che fa riferimento a visioni del mondo alternative a quella classica -rigorosamente imperniata sul principio causale- in cui il tempo, appunto, può seguire una linea spezzata, un percorso circolare, senza essere più strutturato in relazione a un fine (narrativo) a cui tendere. Se nel cinema classico la realtà era pienamente comprensibile perché adagiata su un tempo fluido e fortemente direzionato verso uno scopo, nel cinema neorealista o in quello di Ray che ne è figlio, il mondo appare sempre una forma vaga e ambigua, che si carica di tutte le incertezze, le titubanze e le sospensioni del tempo vissuto. Se quello della Hollywood classica si costituiva come un cinema d’azione, in un film come Il lamento sul sentiero, che segue passo dopo passo le esistenze umili e monotone di una famiglia indiana scandite dai ritmi alternamente pacati o forsennati della natura, indugiando su sacche antianeddotiche e momenti di pura descrizione, la stessa azione lascia il testimone a “situazioni puramente ottiche e sonore”, in cui i personaggi diventano entità passive che sembrano subirla senza poter reagire, più consegnati a una visione che impegnati in un’azione mentre luoghi e oggetti -sui quali non a caso Ray indugia spesso e volentieri con campi lunghissimi o viceversa dettagli molto ravvicinati- che popolano le inquadrature assumono valore per sé stessi e non più in relazione alla figura (ormai decentrata) del personaggio, che si disperde nell’ambiente, si presenta in opposizione ad esso o dimostra una totale e perpetua estraneità.
Il sapore della ciliegia (Ta’m-e gīlās), Abbas Kiarostami, 1997
Il tassello finale di questo episodio ci conduce infine al limitare del Novecento e all’alba del nuovo millennio- gettando in qualche modo un ponte temporale per quello che sarà l’ultimo pezzo di questa rubrica- e ci proietta in Iran, nazione che già dalla fine degli anni ’60 ha opposto all’opprimente clima politico, una temperie artistico-culturale di intensità raramente eguagliate. La voce più eminente in campo cinematografico di tale furore creativo è senza dubbio Abbas Kiarostami, tuttora attivo (e considerato all’unanimità uno tra i maggiori cineasti viventi), latore di un’estetica dell’immagine in movimento che concilia un minimalismo stilistico molto simile al neorealismo e all’opera sopracitato Satyajit Ray con uno scandaglio rigoroso della condizione socio-politica del proprio paese, una lezione morale dai connotati universalizzanti con una riflessione metacinematografica tesa a evidenziare le potenzialità del mezzo, le sue aporie e contraddizioni, il suo potere onnipervasivo, la condizione spettatoriale. In tutti i suoi film, il cineasta iraniano racconta il contatto solidale tra esseri umani, l’imprescindibile necessità dell’Altro che li domina, racchiudendo spesso i suoi protagonisti nello spazio angusto e ristretto dell’abitacolo di automobile -vero e proprio leitmotiv ricorrente del suo cinema con tanto di apice estremo in Dieci, totalmente girato all’interno di una macchina- spazio fisico e simbolico, unico luogo in cui -a detta dello stesso regista- è possibile “mettere insieme generazioni e realtà diverse” libere finalmente di “parlare tra loro in modo intimo e deprivato di sovrastrutture”. Un’elegia della solidarietà a cui Kiarostami unisce un’incessante ricerca sul cinema e le sue strutture. E una filmografia estremamente omogenea costantemente dominata da silenzi, tempi dilatati, pause, ellissi e caselle vuote, rigorosamente imperniata su un principio autoriflessivo che chiama in causa quesiti teorici di estremo interesse come il principio di finzione, la posizione dello spettatore e la potenza di suggestione smisurata prodotta dalle immagini di celluloide sulla psicologia umana.
Proprio per questa straordinaria omogeneità di strutture e contenuti (oltre che per il valore intaccabile di un’opera che praticamente contiene solo capolavori) con Kiarostami potrei pescare a caso da un bussolotto uno dei suoi film e scegliere quello come raccourci microscopique della sua poetica. Potrei ma non voglio. Mi affido al cuore e scelgo Il sapore della ciliegia, quello che per primo mi ha fatto innamorare del suo cinema. Un’opera potentissima nel suo spoglio realismo, disperata nel suo bisogno di vita, poetico e leggero nonostante gli aridi paesaggi bruciati dal sole in cui la vicenda si sviluppa. La storia si propone come un on the road anomalo: il protagonista inteso a suicidarsi, gira con la sua automobile per la polverosa periferia di Teheran alla ricerca di qualcuno che sia disposto, dietro retribuzione, a sotterrare il suo corpo. Ogni personaggio incontrato si fa racconto simbolico della nazione iraniana, sineddoche di un popolo, tassello di un affresco sociale che via via si compone. E ogni incontro sublima quella necessità dell’Altro che il cinema di Abbas Kiarostami ha sempre narrato. Il protagonista che tenta disperatamente di scovare “un aiuto a morire”, cerca in verità una voce che lo salvi, un compagno anonimo che gli ricordi perché la sua vita vale la pena di essere vissuta.
E dopo il finale sospeso, il regista chiude il film con un epilogo straniante in cui si passa di netto dalla notte alla luce del giorno, dalla finzione alla verità: nello stesso luogo in cui il protagonista si era recato per riflettere definitivamente sul suo suicidio ora troviamo Kiarostami intento a dare direttive alla sua troupe, ai tecnici, alle comparse, agli operatori, ammettendo che “le riprese sono finite”. A trionfare è di nuovo il senso più intimo e assoluto dell’arte totale del cineasta iraniano: il senso di profonda e intensissima contaminazione tra arte e vita. E’ in quella scena finale, infatti, che questo rigoroso assunto giunge alla sua massima realizzazione: dopo che il film è diventato vita, scavando nell’intensità psicologica del protagonista minuto dopo minuto -in un’aderenza (non totale ma) sorprendente tra storia e racconto- la vita torna al suo stadio di arte, finzione, cinema.
Stefano Oddi
FILMOGRAFIA COMPLETA
Per la filmografia degli autori vi rinviamo agli schedari dell’Internet Movie Database
Andrej Tarkovskij
http://www.imdb.com/name/nm0001789/#director
Yuri Norstein
http://www.imdb.com/name/nm0635956/?ref_=fn_al_nm_1#director
Akira Kurosawa
http://www.imdb.com/name/nm0000041/?ref_=nv_sr_2#director
Satyajit Ray
http://www.imdb.com/name/nm0006249/?ref_=fn_al_nm_1#director
Abbas Kiarostami
http://www.imdb.com/name/nm0452102/?ref_=nv_sr_1#director
Yasujiro Ozu
http://www.imdb.com/name/nm0452102/?ref_=nv_sr_1#director
Kenji Mizoguchi
http://www.imdb.com/name/nm0003226/?ref_=nv_sr_2#director
Kon Ichikawa
http://www.imdb.com/name/nm0406728/?ref_=nv_sr_1#director
Kaneto Shindo
http://www.imdb.com/name/nm0793881/?ref_=nv_sr_1#director
Masaki Kobayashi
http://www.imdb.com/name/nm0462030/?ref_=nv_sr_1#director