La giornata finale di Science + Fiction si è aperta con uno degli ultimissimi film realizzati dal prolifico Kiyoshi Kurosawa, cineasta giapponese che non abbiamo timori di sorta a definire Maestro
Il calendario dei festival negli ultimi anni si è infittito sempre di più. Per quanto tra di essi ve ne siano alcuni, colpiti da un brusco ed eccessivo ridimensionamento del budget, che pur vantando selezioni di ottima qualità fanno fatica ad andare avanti, le sovrapposizioni di date possono creare comunque qualche imbarazzo agli appassionati. Quest’anno, per esempio, è capitato che due manifestazioni cinematografiche particolarmente sfiziose come il Ravenna Nightmare e il triestino Science + Fiction condividessero lo stesso periodo, quello a ridosso di Halloween. Il sottoscritto, che con il festival ravennate avverte un feeling particolare, non ha potuto esimersi dal seguirlo dall’inizio alla fine. Ma visto che anche a Trieste, nella giornata di chiusura, si profilava un programma sontuoso, otto ore di treno dopo una notte insonne sono parse accettabili, affinché si riuscisse a seguire almeno il programma del 4 novembre. E a conti fatti ne è valsa senz’altro la pena.
La giornata finale di Science + Fiction si è infatti aperta con uno degli ultimissimi film realizzati dal prolifico Kiyoshi Kurosawa, cineasta giapponese che non abbiamo timori di sorta a definire Maestro. Di lui nel successivo Festival di Roma sarebbero stati poi presentati, con riscontri generalmente positivi a livello di critica, ben due lavori: Seventh Code (premiato come Miglior Regia nella kermesse capitolina) e il corto Beautiful New Bay Area Project. Ci si lascia volentieri suggestionare dalla poetica di Kiyoshi Kurosawa, che con Real (questo il titolo del lungometraggio visto a Trieste) ha sfornato l’ennesima opera mirabilmente sospesa tra immaginario fantastico e relazioni umane sofferte, inquiete, in cui la solitudine, il senso di inadeguatezza e il rimorso giocano un ruolo importante.
Il “fantastico”, tra gli assi portanti di questo festival teso a scandagliare la produzione mondiale di “science fiction” e generi affini, nel cinema del maestro nipponico si fonde alla perfezione con lo scavo psicologico dei personaggi e coi tempi dilatati, indubbiamente lenti, di una “detection” che si fa sempre carico di profonde, radicate inquietudini. Il plot prende vita (al pari di determinate fantasie) da avveniristici esperimenti medici legati al “sensing”, ovvero alla supposta possibilità di entrare nella mente dei pazienti in coma, per scandagliarne l’inconscio e interagire con loro. Fino a causarne il risveglio, o almeno queste sarebbero le intenzioni di chi vigila sulla terapia.
Il delicato rapporto di coppia che coinvolge Atsumi e Koichi, con una casa editrice di “manga” sullo sfondo, è lo spunto che offre solide motivazioni all’esperimento, come anche al racconto. Tra continui ribaltamenti di prospettiva, l’onirico lungometraggio di Kiyoshi Kurosawa definisce la relazione tra i protagonisti facendo sì che ripercorrano i ricordi, le paure, la stagione presto mitizzata dell’infanzia, utilizzando il disegno perduto di un plesiosauro quale strumento per aprire lo scrigno di una memoria sottoposta a troppe rimozioni. Ma quando l’immagine del suddetto dinosauro da pura trasfigurazione si trasformerà in presenza tangibile, brutale, rivelatrice di un senso di colpa potenzialmente letale, i due innamorati saranno costretti a fare i conti una volta per tutte con il passato.