
Anno: 1968
Durata: 110′
Genere: Western
Nazionalità: Italia/Germania Ovest
Regia: Claudio Gora
La proiezione del film/documentario I Tarantiniani, di Maurizio Tedesco e Steve Della Casa, omaggio all’epopea dei B-movies italiani, è seguita da un film poco conosciuto appartenente al genere Spaghetti Western. L’odio è il mio dio, scritto a sei mani da Piero Anchisi, Claudio Gora, anche regista del film, e Vincenzo Cerami, già aiuto regista di Pier Paolo Pasolini in Uccellaci e uccellini del 1966.
La storia è ambientata in una città di frontiera del Colorado, Big Springs, dove i signorotti locali fanno impiccare un giovane contadino, Stephen Kernay accusandolo ingiustamente di omicidio, per appropriarsi della sua terra. Il fratello di Stephen, Vincent, che da bambino aveva assistito con un misto di lacrime e rabbia all’ impiccagione del fratello, giura vendetta. Il bambino che interpreta il piccolo Vincent è Giusva Fioravanti (che da grande iniziò la militanza politica e abbracciò la lotta armata). Dopo otto anni Vincent (interpretato da Carlo Giordana) torna a Big Springs per fare giustizia: uccide il giudice che aveva condannato il fratello a morte e il proprietario terriero che si era impossessato della terra di Stephen; con l’aiuto del Nero (Tony Kendall, pseudonimo di Luciano Stella) un personaggio misterioso, dal passato ombroso e di sofferenze. Vincent riesce a fare fuori anche il boia e il banchiere, che ha chiesto aiuto a Sweatly, un feroce pistolero che rivela di avere qualche conto in sospeso con il Nero.
Il film è la lenta ricostruzione degli accadimenti che hanno riportato Vincent in paese; il racconto è affidato a più voci, un articolo del giornale dell’epoca (la cui versione dei fatti è chiaramente dalla parte dei maggiorenti del paese), i ricordi di Vincent e i racconti di una prostituta pentita, che si redime e cerca di aiutare Vincent e il Nero a portare a termine la vendetta; l’ultima mezzora è un susseguirsi di sparatorie che rimbombano nella cittadina deserta e spaventata, dove tutti hanno sempre saputo – e nel proprio piccolo ne hanno beneficiato – delle malefatte del giudice, del banchiere e del proprietario terriero.
La colonna sonora è affidata al giovane Pippo Franco, che interpreta un menestrello “armato” di chitarra e ironia con cui intona le sue ballate “L’America crede di sapere tutta la verità/ però la verità la sa solamente la mia chitarra/ Il bagno lo fa solo chi deve scrollarsi di dosso/il sudore delle infamie il puzzo dell’oro e il tanfo del potere”.
Nonostante la trama sia piuttosto semplice e più o meno in linea con i canoni del western all’italiana – c’è un (anti)-eroe che vuole fare giustizia e ripulire la città, restituendo l’onore al fratello accusato di omicidio anni prima – il film abbozza, seppure timidamente, alcune storture ancora attuali: la connivenza della stampa con il potere, la parzialità della giustizia, l’avidità e l’egoismo generati dalla voglia di accumulare sempre più soldi e potere; c’è da augurarsi che prima o poi si avveri la scena finale del film. Vincent e il Nero cercano di uccidere il banchiere, l’ultimo rimasto e il più duro a morire, che resterà trafitto dalla ringhiera appuntita che circonda il palazzo dove ha sede la sua banca. Forse più che Quentin Tarantino questa scena potrebbe aver ispirato Oliver Stone.
Anna Quaranta