Anno: 2013
Durata: 69′
Genere: Thriller
Nazionalità: Giappone
Regia: Kiyoshi Kurosawa
In 60 minuti di messa in scena Kiyoshi Kurosawa ci regala un twist, arti marziali, lotte criminali russo-nipponiche, il traffico di armi nucleare con annessi intrighi di palazzo, l’inganno dell’apparenza e la verità celata dietro di essa, una metafora di vita cantata, l’ossessione tutta cinese che la ricchezza porti al potere, esplosioni azzeranti.
In 60 minuti si condensano generi cinematografici, figure classiche, perdite, inseguimenti, accoglienza e distacco, amore e tradimenti, doppiogiochismi, destini beffardi, per ricordarci che – proprio come nella vita – quanto visto dagli occhi non è tutto. Come l’accordo di settima (definizione ripresa metaforicamente nell’inserto musicale) è considerato dissonante nella teoria musicale, così gli avvenimenti di Seventh Code sono aspri e stridenti, inaspettati e cinici, in armonia solo con l’idea di realtà-verità negata a prima vista. Kiyoshi Kurosawa ci spinge pertanto oltre il campo visivo costringendoci a riempire di senso il non detto-non mostrato.
Russia, Vladivostok. La giovane e bella Akiko (interpretata dalla popolare cantante giapponese Atsuko Maeda) arriva da Tokyo decisa a incontrare l’uomo con cui cenò una sola volta, l’imprenditore Matsunaga, che presto scopriamo essere invischiato in traffici loschi con la mafia russa. Lui la respinge senza mezzi termini, mentre lei trascina il suo trolley ovunque pur di stargli alle calcagne. Accolta da una coppia che gestisce un ristorante sull’orlo del fallimento, Akiko si avvicina e ascolta le teorie della ragazza (cinese) secondo cui il denaro è potere, motivo per cui abbandona il compagno, protagonista di scelte imprenditoriali fallimentari. Gli elementi di una storia d’amore lineare sono stati ben costruiti solo per essere poi confutati a riprova della tesi principale secondo cui la realtà contiene molto di più di quel che riusciamo a vedere.
Sebbene sia solo un’ora di girato, Kurosawa vuole tutta la nostra attenzione e ci sollecita senza sosta poiché il suo film, in fondo leggero, presuppone intuizione, immaginazione, costruzione di senso, ci impone insomma uno sguardo attivo. I pochi personaggi e quel poco che ci è dato sapere di loro sono in realtà dei microcosmi appena accennati, un work in progress che siamo liberi di mescolare e approfondire a nostro piacimento. Nel finale, di cui non vogliamo rivelare alcun dettaglio, Kurosawa chiude la vicenda di Akiko concedendoci ancora una volta la possibilità di scegliere la traiettoria preferita tra destino, casualità o probabile salvezza, lasciando traballare nell’incertezza la definizione morale di lei: è vittima (in senso ampio) o aguzzino? Uno scorcio di vita piuttosto solido e variopinto il quale, tutto sommato, non si può encomiare né per una lettura cinematografia rivoluzionaria o né per essere una rivelazione esistenziale assoluta.
La visione di Seventh Code è stata accompagnata da un progetto ancora più corto, Beautiful New Bay Area Project (CinemaXXI), 29 minuti di scazzottate e poco amore tra il rampollo disadattato di uno studio edilizio e un’operaia presso il complesso marittimo che il gruppo guidato dal ragazzo ha pensato di abbattere per portare avanti il progetto di modernizzazione urbana. Una mini-realizzazione filmica descritta dal prolifico regista nipponico come il primo film d’azione della sua carriera. Una piccola idea senza troppe pretese.
Francesca Vantaggiato