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Underground

Incontri alla fine del mondo

“Alla fine del mondo si va per scelta. Per insostenibilità a vivere altrove, per irrefrenabile volontà di abbattere i limiti o sbatterci contro. Werner Herzog a McMurdo ci è andato con la sua inquieta e vorace curiosità.”

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Alla fine del mondo si va per scelta. Per insostenibilità a vivere altrove, per irrefrenabile volontà di abbattere i limiti o sbatterci contro. Werner Herzog a McMurdo ci è andato con la sua inquieta e vorace curiosità, misto di glaciale humour, romanticismo esistenziale di stampo tedesco e interesse mai placato a indagare le pulsioni e i sogni dell’animo umano.

 Cifra stilistica che si rinnova felicemente ad ogni documentario, Herzog sceglie la sua stessa voce (over) per introdurci, in forma diaristica e fortemente soggettiva, alle avventure dello sguardo in terra antartica, dalla cima dei vulcani sino agli abissi sottomarini, sotto quell’incantevole cielo di ghiaccio che appare ai nostri occhi grazie alle riprese subacquee di Henry Kaiser, già autore delle dilatate e avvolgenti musiche di The Wild Blue Yonder e di questo stesso lavoro.

 Se il primo “incontro” cui rimanda il titolo dell’opera è quello che avviene con il sublime della Natura, protagonista minacciosa e misteriosa alla quale Herzog, carico di suggestione, riserva uno sguardo contemplante e assai attento alla cura formale, è soprattutto nell’incrociarsi con gli “abitanti” del luogo, un campionario di figure al limite della follia o dell’ossessione, iconograficamente valorizzate dal candido e sconfinato vuoto – da teatro dell’assurdo – del Polo Sud, che l’approccio del regista tedesco seguita a sconvolgere.

 Scompaginando l’ordinario andamento d’un dialogo, Herzog stupisce (quasi ri-producendo in noi quell’incanto che la natura provoca in lui) per come sappia penetrare – indugiando a lungo sui loro occhi e i loro movimenti davanti la camera – nelle storie di quelli che lui chiama “professional dreamers”, coloro i quali hanno voluto spingersi “oltre i margini della mappa”, dove il sole non tramonta per cinque mesi consecutivi, dove, interrogandosi su come in Antartide, ad esempio, un banchiere possa scegliere di fare l’autista di bus, un filosofo possa finire a guidare una ruspa o un linguista curare una serra, si afferma giornalmente e scientificamente l’inesorabilità d’una prossima fine (non più solo spaziale, ma temporale) del genere umano.

 E fruendo dell’evidente e trascinante eccentricità di chi con una domanda dal sapore bizzarro sa far emergere brandelli di poesia dimenticati tra i ghiacci, di colpo ci si scopre più turbati per il destino di un pinguino che ha (volutamente) perso la sua rotta, piuttosto che per tutti gli uomini che abitano e occupano McMurdo (e il resto del mondo).

 Salvatore Insana