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Festival Internazionale del Film di Roma: “Sorrow and Joy” di Nils Malmros (In Concorso)

Il 69enne Nils Malmros, uno dei più importanti se non il più importante e influente regista danese degli ultimi tre decenni, autore leader del movimento realista nonché ammiratore e seguace dell’avant-garde francese con Truffaut come maestro, costruisce sui toni del thriller meta-cinematografico una storia di educazione sentimentale

Pubblicato

il

Anno: 2013

Durata: 107′

Genere: Drammatico

Nazionalità: Danimarca

Regia: Nils Malmros

Il 69enne Nils Malmros, uno dei più importanti se non il più importante e influente regista danese degli ultimi tre decenni, autore leader del movimento realista nonché ammiratore e seguace dell’avant-garde francese con Truffaut come maestro, costruisce sui toni del thriller meta-cinematografico una storia di educazione sentimentale, una storia vera. Sorrow and Joy è un po’ una summa della carriera di Malmros fatta di incontri tra cinema e vita personale, omaggi – o plagi – al cinema amato, rappresentazioni emotive della collettività. Sorrow and Joy è un’incredibile storia autobiografica.

Nel 1984 il regista Johannes/Malmros torna a casa e vive una tragedia: la faglia Marie è stata uccisa dalla moglie Signe, ora in attesa di giudizio. Johannes si batte per proteggerla e ridarle un’altra possibilità.

L’estetica fredda e realistica dell’immagine è il corrispettivo visivo di una storia che procede a ritroso per addentrarsi nel passato della donna accusata del feroce delitto. Lo stile didascalico del regista ci serve con cura – troppa – ciascun dettaglio di ogni passaggio verso l’infanticidio: scopriamo così l’adolescenza turbolenta di Signe, il tentato suicidio, il ricovero in un ospedale psichiatrico, la paura dell’abbandono causata da una madre poco attenta, la gelosia scatenata da un regista narcisista invaghito della sua attrice feticcio appena sedicenne (sensuale e maliziosa proprio come Signe alla sua età), la malattia psichiatrica di una donna maniaco-depressiva bisognosa di cure. Malmros ha una spiccata sensibilità nell’addentrarsi in finezze psicoanalitiche che sminuisce, sfortunatamente, ricorrendo all’uso eccessivo della chiarificazione minuziosa e inutile. I difetti inconfutabili del film sono giustificabili dal diretto coinvolgimento nel dolore e nella gioia di un matrimonio e di un delitto, comprensibile è l’esitazione e l’imperfezione nel fare i conti con il rimosso.

Frutto di un pensiero ragionato è la rappresentazione del regista – di sé – come una creatura intellettualmente fine, con punte di meschinità nella sua intransigenza contro il perbenismo borghese, fedele innamorato del suo lavoro a cui sacrifica tutto, coinvolto in un gioco di seduzione ed erotismo (negati) con l’attrice protagonista dei suoi film convinto sia la chiave per indurre lo spettatore a flirtare idealmente con la sua eroina e ad amare, infine, la sua opera. Interessante è l’accento sulla collettività danese, avanguardista già negli anni ’80 che, emancipata e scevra da giudizi di ordine morale, supporta attivamente la donna – insegnante amata e stimata – comprendendone il dolore senza condannarla. Infine, rivoluzionaria e inaspettata è la lettura dell’infanticidio, approdo ultimo di un disturbo psichiatrico trascurato che ha origini lontane e colpe collettive, gesto straziante concepito per porre fine a un amore difettoso (quello di un marito egoista), metafora disperata e malata di salvezza. Uccidendo Marie, sua gioia più grande nonché frutto dell’amore con Johannes, Signe spera di annientare un amore insano portatore delle gioie più grandi e di dolorose incomprensioni che la sta uccidendo lentamente, giorno dopo giorno.

A distanza di 26 anni dalla tragedia, ritroviamo la coppia ancora insieme, lei graziata dal tempo proprio come la protagonista di un romanzo di cui parlavano anni prima, lui invecchiato, pieno d’amore e gratitudine per lei, lontano ormai dalla carriera cinematografica. La sua ‘biografia’ registica manca però di un capitolo: dall’innamoramento ai tempi delle medie, a quello del liceo, intrecciato all’ossessione di un padre geloso e restio lasciar andare la figlia ormai cresciuta (sublimazione dei sentimenti del regista per la sua attrice feticcio), la scansione in capitoli cinematografici sull’amore è stata privata dell’ultimo appuntamento, quello in cui si impara ad amare. Un apprendimento doloroso che passa per il lutto e per l’uccisione di un io strabordante.

Peccato che l’introspezione tesa al massimo per via del carattere autobiografico della storia sia inficiata dalla negazione imposta all’immaginazione degli spazi ‘bianchi’ nella scrittura e alla personale costruzione di senso a cui lo spettatore mediamente attivo ambisce.

Francesca Vantaggiato

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