
Anno: 2013
Durata: 85′
Genere: Drammatico
Nazionalità: Messico
Regia: Michael Rowe
La solitudine infantile del distacco nella nuova cultura degli affetti di coppia
Entro nel Festival di Roma edizione VIII dritta nel concorso ufficiale, con un ritratto di una lacerazione infantile ipnotico, denso, latentemente feroce e violento. Manto Acuìfero è il secondo studio intorno alla solitudine (che conterrà un prossimo ed ultimo tassello della trilogia, nella tappa dedicata alla vecchiaia) che l’australiano naturalizzato messicano Michael Rowe ha realizzato dopo Año bisiesto (opera prima e Camera D’or al Festival di Cannes 2010). In questo secondo lungometraggio – nato dalla lettura a Berlino, in aeroporto, di un racconto dell’autore australiano Tim Wils che ha scosso il regista dentro un pianto lungo 45 minuti, così in conferenza stampa – la riflessione intorno alla solitudine viene caricata interamente sulle spalle di una straordinaria bambina di 7 anni (un vero e proprio talento, la piccola Zaili Sofía Macías Galván). Caro (Carolina per gli altri, mamma a parte) assorbe completamente, emotivamente e fisicamente, un cambio esistenziale del quale è la sola ad avvertire le concrete conseguenze. Estrapolata da Città del Messico e dalla sua famiglia naturale, soggetta come ormai moltissimi figli, allo smembramento di coppia. Sua madre (la credibile, amorevole, egoista e umana Tania Arredondo), si è legata ad un altro uomo. Il divorzio (contemporaneo mezzo di non accollo delle responsabilità di una vita affettiva, a cui con sempre più troppa leggerezza si ricorre), narrato nella chiave estrema di cesura totale (dal poco che il regista ci svela e dai dialoghi, capiamo che Caro non vedrà più suo padre), diviene man mano che la narrazione si srotola, il protagonista indiscusso dell’isolamento della piccola. E’ una strana ed affascinante bambina, Caro, quasi autistica nel rapporto con la realtà che la contiene. Solo il contatto con gli insetti e la natura, nell’incolto giardino della nuova abitazione nel Sud del Messico (dalla quale la macchina da presa e noi non usciamo mai, e che simbolicamente rende egregiamente anche il senso claustrofobico-alienante della civilizzazione), alimenta e ‘risolve’ psicologicamente una comunicazione (comunque tutta interiore) che il disagio della piccola ha interrotto quasi del tutto con la madre e che non ha mai iniziato con il patrigno. Inumana nel distacco con cui tratta-ricatta la mamma, fisicamente, emotivamente cercata per qualsiasi cosa, e nel rifiuto della nuova figura paterna (il po’ troppo caricato in freddezza e risentimento Arnoldo Picazzo), bannata da qualunque indiretta condivisione. Caro osserva (e noi con lei, nella distanza di sguardo che la sfocatura visiva interpone allo spazio ‘adulto’ ) tutta la sovrastruttura che madre e patrigno impongono alla propria esistenza, fingendo una normalità autoindotta: quel ‘Il tuo nuovo papà’ impostole come la cosa più naturale del mondo, il guardare un altro uomo toccare la madre, l’ascoltare i loro discorsi sul padre di Caro, e sentire dalla mamma prima di addormentarsi la lettura di favole in cui tutti ‘vissero felici e contenti’ generano in lei poco appetito, pipì a letto, avvisaglie di attacchi di panico. Caro non riesce a decifrare completamente i segni del turbamento che il mutamento così secco e brutale della famiglia che l’ha generata (e che dovrebbe accudirla per sempre) le fa vivere. Il confronto con la natura pare confermarle questa perpetuità, che in quel mondo non viene intaccata, spezzata.
L’impeccabile riflessione di Michael Rowe è contenuta in uno stile qualitativamente alto fotograficamente e tecnicamente, nell’assenza di qualunque suono musicale ingannatore-induttore di emozioni artificiali, dentro un minimalismo visivo e verbale rigoroso e flessibile insieme: il non detto, il sottobosco emotivo nelle sue contraddizioni emerge lampante e crudo in una verità anche estetica (oltre che etica) disarmante. Pure la violenza indirettamente subita dalla piccola nell’imposizione del cambiamento, vibra, vivida, nonostante mai venga direttamente provocata. La si respira. La macchina da presa blocca dentro frammenti immobili pezzi di vita nelle splendide inquadrature compositive di taglio medio basso che ‘riducono l’altezza’ a misura di Caro e coinvolgono l’occhio nella verità di rappresentazione a cui assiste. L’eccessiva indifferenza-sottovalutazione nella gestione psicologica della piccola (troncata di netto nei punti di riferimento), che può apparire poco realistica ad una cultura occidentale più attenta (apparentemente) alla psiche del bambino, è una falsa e risolutiva modalità di interpretazione della pellicola. L’Occidente crede di affidare ai facilitatori psicologici la gestione di un senso di colpa nei confronti dei figli che, in entrambi gli universi sociali e culturali, non è considerato con l’attenzione delle reali conseguenze prodotte in loro. Michael Rowe (che vive in Messico ormai un’altra vita) aggiunge uno spaccato sociale differente (solo più rozzo nella sostituzione-imposizione diretta di un passaggio emotivo feroce, non mediato) in cui permane, insormontabile (pur in ambienti medio borghesi), una cultura magico-religiosa dove la psicanalisi non è mai arrivata. E la entomologia che emerge, affascinante, è il riflesso speculare dello sguardo che il regista da sempre imprime di rigore ed obiettività all’osservazione umana che con il suo cinema compie. Forte è pure il riflesso di condanna di una civilizzazione completamente dissociata dalla natura (emblematico il rifiuto-noia di Caro di vedere la tv, rispetto al giocare in giardino, maggiormente stimolante e reale nel senso di identità che il contatto con la natura produce), una delle cause più profonde della solitudine dell’essere umano contemporaneo.
Maria Cera