Un film puzzle nella rivelazione, in primis visiva. Tra noiosi e uguali a se stessi trailer, e per ‘composizione’ e per tematica, arriva dritto negli occhi e nell’essere un montaggio di sequenze stordenti. Acqua lacustre piatta e docile, lambita da un sole caldo, rilassante. Silenzio, solitudine, richiamo di un lasciarsi andare docilmente nell’elemento che sgombra, purifica, scioglie costrizioni-costipazioni… Nudità di corpi maschili attraenti ed un eros ‘primordiale’ nella fusione fisica ed assoluta di corpi, chiave d’accesso ad un perdersi completo. Invito irresistibile. Anche per me. Il simbolismo, incontrovertibile. Un film che non mente. Finalmente.
Lo sconosciuto del lago di Alain Guiraudie*, Miglior Regia Un Certain Regard di Cannes 2013 e premio Queer Palm 2013, è uno dei migliori film dell’anno. Riflessione ipnotica su eros e sentimento, nel confronto (indiretto) tra le diverse dimensioni di un relazionarsi fisico ed emotivo. La riflessione generale ha come campo e metro di misura ‘l’altra sponda’ di un lago (metafora metafisica e naturalistica perfetta), l’altra sponda dell’amore, l’altra sponda dell’eros. Antro-ritrovo di omosessuali che vivono in natura istinti e voglie, ‘giocando’ nella boscaglia appena sopra lo spazio d’acqua ad un cercarsi e prendersi fatto di essenziale: occhiate, toccamenti diretti, porte d’accesso ad un’accoglienza o ‘repulsione’ senza turbamenti, fraintendimenti, scopi nascosti se non il condividere il piacere. Sia in coppia che da soli, come il tenero masturbatore che negli arbusti cerca la coppia da osservare con il costume abbassato e la mano pronta a prendersi la propria eccitazione, trattato come un bimbo dagli amanti che lo lasciano guardare o lo cacciano. A primo colpo d’occhio, assistiamo ad un metafisico proiettarsi di un desiderio che vaga ‘per suo conto’, che risponde soltanto a istinti fisici, diretti, svestiti da eccedenze che l’accumulo di evoluzione ha portato noi esseri umani sempre più a circondarlo di sicurezze-protezioni (e l’HIV oggi quasi dimenticato, non a caso viene prontamente citato), a limitarne gli istinti di appagamento fisico ed emotivo, a calcolarli, ad abbassarne il livello (paradossalmente più alto, nell’essenza a cui rimanda il ‘consumistico’ godimento dei frequentatori di questa sponda del lago).
In questo microcosmo seguiamo Franck (il sensualissimo e innocente Pierre de Ladonchamps), habitué del luogo, giovane di attese esistenziali sia lavorative che emotive. Estroverso, trasparente, attacca bottone empaticamente con un solitario uomo, seduto in disparte, lontano da un qualsiasi offrirsi o anche solo dal ‘toccare’ quel mondo. Henri (il disincantato Patrick d’Assumçao) viene dall’altra sponda. E’ grasso, è solo. Sta su una linea di confine. Deluso da un’ordinarietà relazionale, sessuale ed emotiva, si è ritirato in se stesso, cullato nella nullità di sospensione di uno stare in mezzo, con l’occhio e l’orecchio posati a distanza su quest’altro universo che accosta. Franck cerca piacere e amore, indissolubilmente e naturalmente legati nella vera caccia a cui ambisce. E l’attrazione lo coglie in una new entry: Michel (l’ego libero e predatore Christophe Paou). Bello e misterioso, anche accoppiato. Franck lo vuole, lo segue: si guardano mentre Michel gode con il suo accompagnatore. Sono già da soli, e presto lo saranno, anche se Franck casualmente avrà rivelata una verità apparentemente scioccante, una completezza sull’essenza di Michel che abbraccerà, nonostante (e in virtù proprio di) una piena evidenza.
Franck ‘gode e muore’ con Michel: nel magnetismo di un perdersi, nell’irrazionalità di un desiderio consumato reciprocamente in una empatia di corpi che trascende la stessa realtà e il momento che li contiene. Franck vuole condividere non solo quegli attimi fisici. Vuole mangiare con la sua attrazione, dormirci. Michel invece dissocia l’appagamento e pienezza sessuale dalla condivisione assoluta di sé. Teme l’abitudine, lo smorzarsi del desiderio, vuole essere libero nell’avere un altro se stesso da preservare. Cos’è dunque l’erotismo, cos’è l’amore?
Alain Guiraudie universalizza dentro la storia privata dei tre protagonisti, tre posizioni che intersecano il ‘giro di giostra sempre uguale a se stesso’ di questa paradisiaca terra di nessuno. La morte prende forma accanto alla tentazione più promettente perché carica insieme di pienezza e di fuggevolezza. La morte chiama Franch, rivestita della promessa-scoperta da parte di Michel del bisogno dell’altro. Non sapremo mai se Franch l’abbraccerà del tutto… Resta impressa in me la nostalgia per quella sponda, per quell’acqua, zona franca del desiderio, chimera-simbolo di una libertà e semplicità (che prescinde dalle tendenze sessuali, abbracciandole tutte) che non ci è toccato di sperimentare così, ma solo di relegarla a marginalità, a universi paralleli, a onirici limbi inconsci costipati nella mera idea di un mettersi alla prova fino in fondo, fino ‘a toccare la morte’.
La macchina da presa accompagna questa esplorazione adamitica, scevra da pudori fisici ed erotici, con senso di prospettiva naturalistica lunare. L’acqua, rasentata nelle inquadrature dentro una sinuosità di superficie nel movimento quasi impercettibile che produce, attrae-stordisce-cattura nell’evanescenza e nel mistero che incarna. Una musica originalissima nell’assenza-presenza che esterna, stato emotivo di immanenza rivelatrice. Il thriller non c’è, o se proprio lo si vuol vedere, occupa lo spazio che serve per introdurre il reale-razionale incarnato dal buffo commissario, collante più pratico e demistificatorio di Henri tra i due mondi. A ciascuno la scelta di quale parte del lago occupare. Compreso lo stare nel mezzo come Henri.
Maria Cera
* Già vincitore del Prix Jean Vigo con il mediometraggio Ce vieux rêve qui bouge – presentato al Festival di Cannes del 2001. Pellicola che verrà definita da Jean-Luc Godard come “Il miglior film del Festival di Cannes”.