Hai mai sentito il bisogno di vivere il giorno perfetto? Dove tutto risulta semplice, sereno, indimenticabile, ma soprattutto ineguagliabile . Last Swim, film d’esordio del regista britannico Sasha Nathwani, parte proprio da lì. Dal bisogno feroce di vivere tutto adesso, come se non ci fosse un domani. Il risultato è un coming-of-age urbano, tenero e potente, che parla a chi si trova dentro l’adolescenza, ma anche a chi la osserva.
Dopo il passaggio alla Berlinale, dove ha vinto il Crystal Bear nella sezione Generation 14plus ed al BFI London Film Festival, il film è arrivato al Bolzano Film Festival Bozen nella sezione Lili- Little Lights. In sala, le classi del liceo italiano e tedesco: pubblico perfetto per una storia che racconta l’urgenza, la vulnerabilità e la libertà dei diciott’anni.
Ziba (Deba Hekmat) ha appena ricevuto i risultati degli A-levels. È brillante, ama l’astrofisica, sogna la UCL. Ma qualcosa non va. Una diagnosi recente, tenuta nascosta, le fa capire che questo potrebbe essere l’ultimo giorno di libertà. Così stampa un itinerario, raduna i suoi amici e parte alla conquista della città. Tra falafel, parchi, nuotate, sigarette, risate. Tutto deve essere perfetto. Tutto deve essere vissuto. La Londra di Last Swim è reale, affettuosa, vibrante.
“Ziba sente il peso del mondo sulle spalle. Ma non vuole cedere. Vuole vivere tutto a modo suo.”
Racconta Nathwani in un’intervista.

La bellezza di guardare da vicino
La regia di Sasha Nathwani è intima, dinamica, vicinissima ai volti, come se la macchina da presa fosse talvolta appoggiata su un filo d’erba. I primi piani dominano, ma non intrappolano, raccontano. E a tratti sembrano voler abbracciare i personaggi più che inquadrarli. Il lavoro del direttore della fotografia Olan Collardy (già noto per Rye Lane) è un altro punto altissimo: Londra non è mai sembrata così morbida, così fragile, così viva.
Altri grandi registi britannici come Andrea Arnold con Bird (presentato ad Alice nella città nel 2024) decidono di utilizzare una cinepresa in movimento, in grado di riprendere ogni singolo dettaglio, capace di seguire i personaggi con discrezione e sensibilità e. È uno sguardo rispettoso, emotivo, che sa quando restare e quando lasciar andare.
Ziba e Hekmat: quando attrice e personaggio si fondono
Deba Hekmat, al suo primo ruolo da protagonista, è Ziba, in un certo senso, anche se stessa. Nata in Kurdistan, cresciuta a Londra e poi a Cardiff, Hekmat non è un’attrice di formazione. Non ho fatto teatro, né lavorato per la tv e neppure accademie. Lei stessa ammette di non saper ancora definire veramente il suo lavoro. Il regista l’aveva notata anni prima su Instagram, per poi ricontattarla per un provino.
“Le abbiamo chiesto di fare una scena senza parlare. Doveva solo ascoltare una diagnosi e farci vedere la perdita di speranza negli occhi. È stata incredibile.”
Da lì, è nato tutto. L’attrice parla un inglese giovane e diretto, e ha chiesto al regista di adattare i dialoghi al modo in cui “i ragazzi parlano davvero”. C’è stata una scena in particolare in cui è stato chiesto ai giovani se usare ‘dumb bitch’ o ‘dumb cow’, e Hekmat ha sostenuto che nessuno della sua età direbbe mai ‘dumb cow’!

Un gruppo apparentemente reale
I ragazzi intorno a Ziba non sembrano attori, bensì amici veri ed in parte lo sono.
“Avevo sei mesi per farli provare insieme. Dovevano diventare un gruppo”
Ha precisato Nathwani, e ci è riuscito. Ogni dinamica risulta naturale ed ogni battuta possiede il giusto peso. E poi c’è Malcolm (Denzel Baidoo), figura misteriosa ma familiare, con cui Ziba entra sin da subito in contatto in modo profondo. Anche lui nasconde qualcosa. Anche lui si trova in bilico. Il loro incontro non rappresenta la classica storia romantica. È uno scambio, uno specchio.
Il corpo come silenzioso campo di battaglia
Ziba è in costante movimento: cammina, corre, nuota, fuma, pedala. Come se volesse stare sempre un passo avanti a qualcosa che la sta inseguendo. Eppure il corpo la tradisce. Inizia a sanguinare dal naso. Una, due volte. I suoi amici si preoccupano, cercano di capire. Ma lei si chiude, minimizza, sorride. Non vuole ammettere che qualcosa sta cambiando.
Nel mondo di Last Swim, la malattia non ha nome, ma è ovunque. È nei brevi respiri, nei gesti trattenuti, nei silenzi che spesso durano più del necessario. Il corpo, prima della mente, intuisce il cambiamento. Ma Ziba non vuole ascoltarlo. Forse perché dare un nome al dolore significherebbe renderlo reale e lei, almeno per un giorno, vuole solo seguire la sua mente, senza fermarsi. È qui che il film tocca qualcosa di profondo: la paura di perdere il proprio corpo come linguaggio del proprio sé. Il terrore che ciò che ci definiva; la forza, la leggerezza, il controllo, stia per svanire. Per ciò Ziba si aggrappa al presente, anche quando le forze sembrino incominciare a mancare.