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Taxidrivers Magazine

Squarci di settima arte: Il grande cinema d’autore (Parte 1: Europa)

Il decimo episodio degli squarci di cinema di Stefano Oddi: un viaggio (in scala inevitabilmente e dolorosamente ridotta) attraverso l’eterogenea prolificità dell’Europa cinematografica post-68. Da Luis Buñuel a Theo Angelopoulos, passando per Ingmar Bergman e i giovani talenti delle “nouvelle vagues” di Germania, Inghilterra e Polonia.

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Articoli come questo -e quello che verrà- mettono a dura prova la pazienza, la mente e il cuore di chi scrive. Ancor più che negli episodi dedicati a Hitchcock e alla Nouvelle Vague (in cui tentai di raccontare due mondi sterminati attraverso il riferimento a soli cinque film) qui sarò costretto a estremizzare il doloroso strumento della sintesi come il supplizio del sacrificio. Mi propongo infatti di raccontare lo sfaccettato -oltre che illimitato- scenario del grande cinema europeo che seguì le rivoluzioni linguistico-estetiche del neorealismo e della Nouvelle Vague francese.
Nel momento della pianificazione di una simile operazione, mi si sono aperte davanti due ipotesi: ragionare per eccesso e procedere in pratica con un elenco infinito di nomi e titoli che avrebbe rischiato di risultare astratto, noioso e tremendamente prolisso oppure lavorare seguendo un duro e arduo criterio di selezione, impegnandomi in modo crudele e divorante a illuminare la poetica di ogni regista attraverso un solo film -arrischiandomi a scegliere spesso non il più universalmente acclamato ma un titolo meno noto ma che in misura netta riesca comunque a fungere da compendio a una precisa visione del mondo e del cinema- o a volte, ancor più radicalmente, a parlare di un unico rappresentante per nazione.
Da questo compendio europeo in miniatura ho volontariamente escluso i cineasti francofoni (avendo già dedicato alla Francia cinematografica del dopoguerra un episodio integrale di questa rubrica) scartando -non senza provare più d’una stretta al cuore- autori giganteschi del calibro dei francesi Bertrand Tavernier, Jacques Tati, Claude Lanzmann, Maurice Pialat, Agnes Varda, Jean-Marie Straub e Danièle Huillet e della belga Chantal Akerman. Mi sono dedicato invece allo spagnolo Luis Buñuel, ai due maggiori esponenti del Nuovo Cinema Tedesco e a quello più paradigmatico del Free Cinema inglese, allo svedese Ingmar Bergman, al binomio di nomi -a mio avviso- più esemplarmente indicativi del grande rinnovamento cinematografico sviluppatosi nella Polonia della seconda metà del secolo e infine al greco Theodoros Angelopoulos. Tutte scelte durissime che hanno comportato altrettante esclusioni -lo ammetto- imperdonabili (che di volta in volta mi impegnerò quanto meno a citare). Tutti cineasti straordinari che meriterebbero un’ampia e approfondita monografia ma che nello spazio ridotto di questa rubrica non posso che celebrare scegliendo -ancor più dolorosamente- un solo film a testa.

Il fascino discreto della borghesia (Le charme discret de la bourgeoisie), Luis Buñuel (1972)

Il fascino discreto della borghesia (Le charme discret de la bourgeoisie), Luis Buñuel (1972)

Cominciamo dunque da Luis Buñuel, nato nel 1900 in Aragona ma costretto ad operare tra Francia, Messico e Stati Uniti a causa della dittatura franchista. Padre del surrealismo cinematografico e autore -insieme a Salvador Dalì– delle due opere che più tradizionalmente vengono associate a tale orientamento (gli straordinari Un chien andalou e L’age d’or), Buñuel si caratterizza sin dagli esordi come una personalità straordinariamente eversiva, libera e irriverente, estranea a qualsiasi moda o corrente cinematografica dai confini troppo netti (perfino il suo “essere surrealista” è permeato da istanze propriamente soggettive) e portatrice, per converso, di una visione unica e profondamente personale, fondata su un anelito antiborghese e anticlericale, su uno sforzo sempre costante di scavalcare i confini angusti e sclerotizzati della narrazione tradizionale per giungere a forme ibride, capaci di sezionare la lineare teleologia del quotidiano e mescidarla con le discese a picco negli oscuri orizzonti dell’inconscio e del desiderio.
Il film che più dettagliatamente illustra l’esplosiva e affascinante poliedricità della sua opera è -in questo caso- anche il più universalmente noto, complice anche quella vittoria agli Oscar che Buñuel commentò in modo frizzantemente sarcastico, confermando la sua idiosincrasia nei confronti di ogni riduzione dell’arte a uno schema stupidamente passatista: “Si trattava di un voto perfettamente democratico. Certo, il risultato è imprevedibile perché a votare sono 2.500 idioti, tra i quali c’è pure, per esempio, l’assistente figurinista dello studio, che ha diritto al voto come gli altri.”
Sto parlando ovviamente de Il fascino discreto della borghesia, compendio assoluto del cinema buñueliano, raccoglitore massimo della sua concezione del cinema. E in realtà dell’esistenza tout court.
Nel raccogliere in un unico contenitore tutte le sue ossessioni più care, Buñuel opta per una struttura a tre livelli, liberi di intersecarsi in modo ambiguo nel corso della narrazione e capaci in questo modo di problematizzare le rigide barriere tra i diversi livelli di realtà con cui lo spettatore è abitualmente costretto a confrontarsi.
Il primo è il piano narrativo per eccellenza e racconta -in un registro che unisce ragione e contraddizione, logica e incredulità- la storia di un gruppo di borghesi benestanti e ipocritamente eleganti che tentano ripetutamente di organizzare un pranzo che per varie ragioni non riesce ad avere mai luogo. L’impossibilità di mangiare, reiterata plurimamente nel corso della pellicola, si configura come cifra simbolica di pariniana memoria e pare attestare la tensione infinita della borghesia verso il soddisfacimento dei bisogni primari, perennemente bloccata da una vanagloriosa e innaturale smania di rispettare le regole non scritte del sociale, dettate dal potere di istituzioni senza volto. Come contraltare di questo leitmotiv del “mancato banchetto” si sommano però le “esistenze celate” dei vari protagonisti che dietro a una scorza di rispettabilità e onore nascondono delle “vite parallele” meschine (il caso più esemplare è quello del protagonista, ambasciatore zelante e nel contempo ligio organizzatore di un traffico di droga clandestino).
Il secondo livello filmico porta a un grado di intensità maggiore l’irriverente satira dell’ipocrita, grottesco e alogico way of life borghese. Si tratta del gruppo di sequenze oniriche che costellano il film -sostituendosi come nulla fosse al normale flusso del quotidiano e confermando la propria natura di “sogno” soltanto in un secondo momento- nelle quali tutte le pulsioni azzerate nel primo livello riemergono in modo sfacciato e irrefrenabile, in una sorta di esplorazione capillare di un inconscio troppo a lungo represso.
Il terzo livello filmico, infine, è quello che presenta i caratteri di massima ambiguità e si apre invece a una procedura affascinante di infinitizzazione del senso. Parlo ovviamente della serie di sequenze mute che intervallano il flusso filmico ripetutamente in cui i sei protagonisti camminano senza sosta (e senza proferire una parola) su una strada vuota, circondata su entrambi i lati da prati verdi. Qui il potere di suggestione aumenta a dismisura, l’atmosfera onirica si fa sempre più penetrante, accrescendo in modo vorticoso il valore “surrealista” (quanto meno nel senso più letterale) dell’immagine, che con la sua cadenza reiterata e ipnotizzante supera l’orizzonte del fenomenico per aprirsi a uno stato conoscitivo “oltre” la realtà (sur-realtà) in cui veglia e sogno sono entrambe presenti e si conciliano in modo armonico e profondo. Una successione di sequenze che si dà dunque come momento di sublimazione (narrativa e simbolica) dei due livelli diegetici precedenti, interpretata di volta in volta in modo drasticamente diverso: ora come una sorta di metaforico pellegrinaggio della borghesia all’interno di sé stessa, dei propri riti e delle proprie insensate convinzioni; ora come la rappresentazione più rigorosa -nel suo minimalismo- dell’eterna erranza dell’uomo moderno alla ricerca del piacere e della soddisfazione del desiderio; spesso addirittura attraverso un’ottica meta-cinematografica che vede nel cammino eterno dei protagonisti uno specchio del percorso degli spettatori alla ricerca del senso all’interno della labirintica struttura dell’universo messo in scena dal regista.

Woyzeck (id.), Werner Herzog (1979)

Woyzeck (id.), Werner Herzog (1979)

Dopo Buñuel, il nostro itinerario approda alla Germania divisa del dopoguerra, dominata da una frizzante ansia di rinascita culturale che culminò in ambito cinematografico alla nascita del cosiddetto Nuovo cinema tedesco, a partire dalla pubblicazione del noto Manifesto di Oberhausen, una dichiarazione sottoscritta da un gruppo di giovani cineasti riuniti in occasione dell’annuale rassegna cinematografica nota come Internationale Kurzfilmtage, in cui si denunciava lo stato di immobilismo e stallo inesorabile in cui riversava il cinema tedesco e si proponeva la nascita di una cinematografia libera da condizionamenti culturali e commerciali, capace di rinnovarsi a partire delle innovazioni tecniche e tematiche introdotte dal Neorealismo italiano, dalla Nouvelle Vague francese come dalle lezioni imprescindibili del cinema classico hollywoodiano e dell’Espressionismo tedesco degli anni ’20. Una stagione cinematografica di tale rilevanza meriterebbe da sola un approfondimento personale e capace di delineare in modo onnicomprensivo le sue anime. Nello spazio ridotto in cui mi trovo a scrivere sarò costretto a escludere cineasti del calibro di Edgar Reitz, Wim Wenders, Margarethe von Trotta e Alexander Kluge, per soffermarmi su due capolavori -stavolta non i più conosciuti, anzi probabilmente i meno ricordati- dei due autori che a mio avviso rappresentano gli assoluti imprescindibili del cinema tedesco della seconda metà del Novecento: Werner Herzog e Rainer Werner Fassbinder.
Il primo si costituisce nell’immaginario contemporaneo come uno dei massimi cineasti viventi, con una filmografia sterminata caratterizzata da una continua alternanza tra fiction e documentario. Alternanza in realtà ambigua e a detta dello stesso Herzog inesistente (“Non faccio una chiara distinzione tra di essi. Sono tutti film.”) poiché tutti i suoi film di fiction sembrano essere sottomessi a una spinta implacabile verso la fattualità concreta del reale e per converso molti dei suoi “documentari” paiono orientati a un’irrinunciabile anelito verso la poesia o ciò che per sua natura esula dal reale (la fantascienza, ad esempio). Tutti i suoi film, in ogni caso, sembrano confermare il suo legame indistricabile con la propria cultura, della quale si dà come -almeno cinematograficamente- come testimone più paradigmatico. Ogni sua pellicola è inequivocabilmente fondata su una riflessione drasticamente pessimista sulla natura dell’uomo e del creato, il cui rapporto non può essere che letto come una continua operazione di sopraffazione del secondo sul primo. I suoi protagonisti si configurano generalmente come degli outsider (per quanto il regista ammetta che “I miei personaggi sembrano degli outsider, ma è il resto ad essere outsider.”), banditi dal sociale o incapaci di integrarvisi in modo coerente, sottomessi alla potenza distruttrice, beffarda e indomabile della natura o a quella ancor più gretta del sociale o delle forze inconsce che dominano il loro Ego devastato, che della natura non sono che i riflessi imperfetti e (ancor più) brutali.
Tutti caratteri profondamente connessi con la storia recente di un pensiero -quello tedesco- improntato su una visione pessimista del mondo, passando dal nichilismo estremo di Nietzsche a quella sua prima e più rigorosa concretizzazione cinematografica costituita dall’Espressionismo, serbatoio di realtà defigurate e distorte, assoggettate allo sguardo di un potere soverchiante e privo di volto (che lo stesso Herzog citerà esplicitamente col suo Nosferatu, rifacimento dell’omonimo film di Murnau e a detta del regista collegamento cercato e voluto tra il grande cinema tedesco del passato e il cosiddetto “nuovo cinema tedesco”).
In una filmografia compatta e quanto mai coerente come quella di Herzog, scegliere un film come specchio di un pensiero è particolarmente difficile. Come già detto sopra, la mia scelta è dettata più che altro dalla volontà di render omaggio a un capolavoro raramente ricordato nelle -frequenti- ricognizioni dell’opera del cineasta tedesco. Si tratta di Woyzeck, tratto dall’omonimo dramma teatrale di Georg Büchner (altra connessione con la cultura tedesca), cronaca della disperata discesa verso la follia di un povero soldato (il sempre magistrale Klaus Kinski, attore feticcio di Herzog), costretto per guadagnarsi da vivere e sostenere la sua compagno infedele e il (di lei) figlio illegittimo, a far da cavia per gli esperimenti di un medico senza scrupoli. I 75 minuti di pellicola costituiscono un nerissimo trascorso attraverso l’umiliazione, la beffa, l’odio e l’orrore di un’umanità incapace di assistere e tutta ripiegata nel sottomettere il più debole, nel subordinare meschinamente chi -nella sua innocente voglia di vivere, amare ed essere amato- non trova altro che smarrimento e follia.

Querelle de Brest (Querelle), Rainer Werner Fassbinder (1982)

Querelle de Brest (Querelle), Rainer Werner Fassbinder (1982)

Appena più semplice è stata la scelta del film per Fassbinder, nonostante anche la sua -prolifica- filmografia sia densissima di capolavori. Nella selezione ha influito drasticamente -come per Herzog– la volontà di dar voce a un tassello imprescindibile, eppure odiatissimo e in alcune occasioni totalmente demonizzato, dell’opera del cineasta tedesco. A questa motivazione però si è affiancata la celebre e strenua operazione di difesa messa in atto da Marcel Carné in occasione della cerimonia di premiazione della 39ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia dove il film fu presentato. Il maestro francese disse: “Come Presidente della Giuria non sono riuscito a convincere i miei colleghi a premiare il film Querelle di Rainer Werner Fassbinder. Sono stato il solo a difenderlo. Tuttavia continuo a credere che l’ultima opera di Fassbinder, che lo si voglia o no, che la si deplori o no, avrà un giorno il suo posto nella storia del cinema.”
Ho voluto così, nel mio piccolo, dare a Querelle de Brest un posto d’onore nella mia storia del cinema, riconoscendo il suo valore nei termini di summa rigorosa dell’opera di uno dei più grandi cineasti europei di sempre. Il film si configura come il viaggio interiore del protagonista Querelle alla ricerca della propria identità (sessuale ed esistenziale) tra i bassifondi di una città portuale riprodotta con uno stile volutamente antirealistico (tutto è girato in teatro di posa e allestito seguendo la lezione espressionista e barocca) dominata dal vizio, dalla morte, dalla perdita di valori ma non immune ai percorsi del sentimento così profondamente tipici dei film di Fassbinder, impegnato sin dall’inizio della sua carriera in un programmatico lavoro di rifondazione dei parametri del melodramma alla Douglas Sirk, teso ad accogliere negli schemi narrativi del genere le sospensioni ieratiche del tempo vissuto e ad annullare i problematici paletti della censura hollywoodiana, aprendosi agli amori omosessuali, alla liberazione della corporeità, alle dinamiche del transgender (tutti elementi oggi ripresi esplicitamente da un regista come Almodovar).
In Querelle de Brest, ultimo film del regista, questa operazione trova la sua sublimazione definitiva: come, secondo Paolo Bertetto, Kubrick in Arancia meccanica si proponeva di rendere l’ultraviolenza -intesa come un impeto troppo eccessivo per rappresentarlo attraverso la realtà quotidiana- rompendo l’equilibrio del mondano e della rappresentazione e riproducendo il mondo come un universo artificiale, ipersemiotizzato, distaccato da ogni contatto con la natura; allo stesso modo Fassbinder, giunto al suo film definitivo, decide di rappresentare il corpo e la passione -ossessioni cardine di tutti i suoi film- nei termini di alterità talmente forti rispetto al quotidiano da richiedere l’invenzione di nuovi modi di raccontare e produrre immagini. Da qui nasce l’esigenza di un universo diegetico palesemente finto, in cui la forza spropositata della fisicità barbarica scardini il naturalismo della rappresentazione, per esprimersi in un agglomerato in cui tutto è citazione (è innegabile che Querelle trasudi di tutti i lasciti più imponenti della cultura tedesca, da Brecht all’Espressionismo). In questo senso, dunque, il sole finto, i tetti di cartapesta, la recitazione -spesso- straniata, gli ambienti immersi nell’arancio falsante delle luci di posa, le didascalie nere su fondo bianco che continuamente spezzano il ritmo diegetico -ovvero tutti gli elementi che i detrattori considerarono alla stregua di paraventi carichi di manierismo incapaci di celare un vuoto di ispirazione- costituiscono in realtà l’ultimo e più estremo risultato di un’estetica (quella di Fassbinder) da sempre fondata sull’eccedenza del corpo, del sesso (come del senso) e del melodramma stesso (da sempre considerato genere “eccessivo”), ormai incapaci di restare intrappolati nella datità nuda del reale e obbligati per esprimersi a defigurarlo, destrutturarlo in tutte le sue componenti, fino a condurlo alla bruciatura estrema, al frame bianco che interrompe il flusso e lascia alla scrittura il compito di dire ancora.

Se... (If...), Lindsay Anderson (1968)

Se… (If…), Lindsay Anderson (1968)

In Inghilterra gli anni ’60 coincisero con una drastica trasformazione storico-culturale, causata in primo luogo dallo sgretolamento dello storico impero coloniale britannico o meglio dalla sua trasformazione in quell’immenso circuito finanziario fatto di legami commerciali chiamato Commonwealth. L’avvento del neocapitalismo scosse le coscienze, dando vita a un cambiamento epocale che coinvolse ogni settore della sfera pubblica: dall’industria alla moda, dalla meccanica di precisione alla musica, dalla pittura al cinema. Come in Germania, una giovane generazione di registi e sceneggiatori influenzati dall’esperienza della Nouvelle Vague francese, espressero in un manifesto la loro esigenza di un cinema rinnovato, capace di affrontare la realtà con occhio lucido e disincantato, fondato “sulla fede nella libertà, sull’importanza della gente comune e del valore della quotidianità”. Questi i temi fondanti del Free Cinema che si andò costituendo in primo luogo come un’operazione di totale rottura col passato, tesa a sostituire i “drammi dei quartieri alti” del cinema tradizionale con i cosiddetti kitchen stink plays, letteralmente i “racconti che puzzano di cucina”, imperniati sulla quotidianità ripetitiva e soffocante di proletari, operai o piccoli borghesi, sul loro inglese sporco e popolare (il cockney). Soprattutto scandagli di un’impotenza, ritratti di piccoli uomini che lottano per emergere dal degrado fumoso e rassegnato della provincia, affreschi dolorosamente affettuosi di un’Inghilterra incazzata (gli autori di questo nuovo cinema furono non a caso chiamati Angry young men). Proprio per questo, forse, le scelte più logiche e adeguate a descrivere una simile stagione sarebbero state il Look back in anger di Tony Richardson (scritto da John Osbourne) o Sabato sera, domenica mattina di Karel Reisz, pienamente pervasi dei caratteri citati nell’analisi generale sopra condotta del nuovo cinema inglese. Eppure, essendo -come già specificato- il Free Cinema prima di tutto una rivendicazione di libertà nei confronti del passato, la mia preferenza non poteva che cadere su Se… di Lindsay Anderson, grottesco e ironico affresco di una nazione in trasformazione, condotto attraverso il filtro di una prestigiosa scuola privata descritta nei termini di un carcere militare, in cui le ridicole usanze borghesi e le assurde regole di disciplina dettate da un conservatorismo bigottamente fondato sulle istituzioni ecclesiastiche e militari favoriscono la crescita dei fermenti di ribellione dei rappresentanti di una gioventù nuova e libera. Lindsay Anderson attacca alla radice -come Buñuel– l’ipocrita e sadica coscienza borghese dei suoi tempi, non solo facendola crollare sotto i colpi di fucile dei suoi protagonisti in quello che è uno dei finali più crudelmente liberatori della storia ma anche costruendo il film come una struttura ibrida e sospesa tra realtà e immaginario. Per rispondere al conformismo raggelante e livellante del mondo borghese rappresentato in scena (uno dei professori ammette a chiare lettere che “il collegio è simbolo di molte cose: cameratismo, integrità nei pubblici uffici, alto livello nel mondo televisivo e dello spettacolo, generosi sacrifici nelle nostre guerre. Certo, alcune nostre usanze sono ridicole e si potrebbe dire che noi siamo borghesi ma una gran parte della popolazione si sta apprestando a divenire borghese e molti valori della classe borghese sono valori di cui la nazione non può fare a meno.”) Anderson sfrutta la carta del surreale, contaminando il tessuto narrativo di piccole ma straordinarie parentesi di stordente e magnifica visionarietà. Così ai rigidi e codificati ritmi del collegio seguono le tanto aspirate scene di accesa carnalità (stigmatizzate da un’istituzione rigorosamente controllata dal potere vescovile), le fughe in moto, le esplosioni di inaudita violenza contro un potere ormai logoro oppure la scoperta di passaggi nascosti, di porte e cunicoli invisibili, capaci di condurre in mondi diversi, nascosti, forse migliori.

Sussurri e grida (Viskningar och rop), Ingmar Bergman (1972)

Sussurri e grida (Viskningar och rop), Ingmar Bergman (1972)

Procedendo con il nostro excursus verso nord, entriamo inesorabilmente in territorio scandinavo e ci scontriamo ancor più inesorabilmente con il cinema di Ingmar Bergman, il maggiore esponente -insieme al nostro Michelangelo Antonioni– di quel cinema moderno fatto di sospensioni silenziose, tempi morti, studi di personalità di accecante rigore psicologico. Come per Herzog, comprendere il cinema di Bergman significa addentrarsi nelle radici di una regione, nelle strutture di pensiero di un mondo di cui i film non sono che manifestazione contingente. Dire dell’opera di Bergman significa in fondo riferirsi alla messa in scena di una filosofia negativa costruita a partire da Kierkegaard, un pensiero della crisi che si pone come superamento drammatico ma definitivo dell’idealismo hegeliano. Se Hegel infatti riconosceva l’esistenza della sintesi, di un elemento cioè in grado di conciliare gli opposti, Kierkegaard (e come lui Nietzsche, Schopenauer e Heiddeger) imponeva il principio dell’aut aut (l’uno o l’altro), eliminando la possibilità della sintesi e riconducendo l’esistenza nell’orizzonte univoco del conflitto e della crisi.
E dunque a ben guardare una matrice kierkegaardiana permea l’intero cinema di Bergman, costantemente teso a spostare l’attenzione diegetica dal mondano all’intimo, dall’azione narrativa alla spoliazione esistenziale, sempre condotta attraverso un ossessivo uso del primo piano, inteso come strumento ideale per scandagliare la complessità, la crisi, il conflitto interiore che caratterizza ognuno dei suoi fragili personaggi, soprattutto femminili.
Inoltre il pensiero di Kierkegaard viene riletto dal regista svedese attraverso il filtro della propria esperienza personale. Figlio di un severo pastore protestante, continuamente attraversato da profonde crisi, la fede di Bergman prese a vacillare sin dalla giovane età. Questo lo condusse a traslare nelle sue opere un senso di religiosità inquieta e quanto mai problematica, un tentativo disperato di ricerca teso verso un Dio vago, non più inteso come una sorta di cupola capace di racchiudere e sanare i conflitti ma come conflitto esso stesso, scontro perenne tra esser(ci) e non-esser(ci).
In una filmografia talmente sterminata, gigantesca e compatta, comunque, scegliere un film non può che configurarsi come un atto soggettivo. Nel mio caso, nonostante consideri (forse) Persona il più alto risultato del regista e -contemporaneamente- porti nel cuore quell’immenso atto d’amore costituito da Il posto delle fragole, ho deciso di orientarmi verso Sussurri e grida che per molti aspetti si presenta come la summa più programmatica dell’itinerario bergmaniano, l’apice assoluto di quel rigore registico fatto di una simmetria raggelante, di un simbolismo che si manifesta -qui, come archetipicamente- nella datità pura del colore, della penetrante discesa nel groviglio frastagliato dell’animo femminile, dell’uso del primo piano nei termini di strumento di spoliazione esistenziale.
Sussurri e grida si presenta infatti come un dramma familiare in interni, dominato dalle tonalità vivide del bianco e del rosso -i riferimenti più immediati dei temi della purezza e della passione- tutto giocato, in un ritmo che oscilla continuamente tra presente e passato, sui rapporti di amore e odio, affetto caloroso e gelido rigetto che si consumano tra una donna in fin di vita, le sue due sorelle tornate nella casa paterna per assisterla e la sua affettuosa cameriera, dolorosamente legata a lei come una madre. Qui più che mai l’azione risulta congelata e la diegesi si concentra totalmente nella complessità interiore delle protagoniste, nelle non raccontabili sacche di memoria nascoste a forza dietro agli sguardi posati, ai volti statici, incapaci -da soli- di suggerire stati d’animo e perciò scavati con forza penetrante da una macchina da presa che gli si pianta di fronte e sembra fissarli a sua volta, erodendo il timore di esprimersi e mostrando allo spettatore i segreti sussurrati e le grida taciute.

Sul globo d'argento (Na srebrnym globie), Andrzej Żuławski (1988)

Sul globo d’argento (Na srebrnym globie), Andrzej Żuławski (1988)

Il conflitto e la crisi, uniti a una riflessione quanto mai radicale sui più oscuri anfratti dell’essere, sull’orrore dell’inesplicabile quotidiano e a un concetto dell’esistere come disordine, caos generalizzato è la struttura che fa da perno al cinema di Andrzej Żuławski, uno dei maggiori esponenti del nuovo cinema nato in Polonia a partire dalla fine degli anni ’50, di sicuro l’interprete più controverso -e per questo duramente osteggiato- del fervore culturale che permeò la Repubblica Popolare di Polonia nel secondo dopoguerra. L’opera che meglio esprime l’essenza del cinema zulawskiano è Sul globo d’argento, film maledetto iniziato nel 1977, bloccato in corso d’opera dalla repressiva censura di matrice filo-sovietica e terminato nel 1988, mozzato di due ore e mezza rispetto al progetto originario, con l’inserimento di un commento dello stessa regista che illustra a voce il contenuto delle scene mancanti. Il film -anche in questa veste incompleta- si presenta come un’opera incredibilmente singolare, impossibile da paragonare a qualsiasi altra, un’esperienza estetica e visiva unica e devastante, annichilente, distubante per ogni spettatore che prestandosi alla visione non può che disimparare a giudicare secondo categorie convenzionali, lasciandosi risucchiare da un abisso straordinariamente denso di suggestioni.
Sul globo d’argento pulsa da ogni fotogramma l’insofferenza estrema di Żuławski nei confronti dell’opprimente clima politico dell’epoca (che lo costrinse a stabilirsi in Francia) e di riflesso la sua concezione dell’esistenza come caos ciclico e reiterato, come male, sopraffazione eterna. Insinuandosi nell’orizzonte fantascientifico, il regista polacco racconta la storia di un gruppo di astronauti che sbarcano sulla Luna e creano una nuova civiltà, realizzando una sorta di diario visivo della loro esperienza, attraverso un occhio meccanico attraverso il quale vediamo tutta la prima parte del film e che in seguito spediscono sulla Terra. Nella seconda parte di quest’opera fluviale un nuovo astronauta, Marek, raggiunge “il globo d’argento” e, accolto come un Messia, s’impegna per liberare la civiltà lunare dal terribile pericolo rappresentato dagli Shern, sorta di demoni dall’aspetto mostruoso che non rappresentano altro che il lato oscuro dell’umano, il doppio, l’altro necessariamente connaturato a noi stessi. Nel finale però anche per la civiltà lunare, si ripete il ciclo cristologico e il Messia Marek viene crocifisso su una spiaggia che pare richiamare l’antinferno dantesco. Non c’è speranza vera o presunta di redenzione o di rinascita per l’uomo. Sul globo d’argento è un eterno ritorno in cui tutto si ripete immutabile, in cui la tragedia imperfetta dell’uomo si avviluppa su sé stessa e si ripresenta identica, priva di variazione. Il viaggio interplanetario non coincide con la genesi di una nuova umanità, capace di apprendere dai propri errori e di godere delle proprie conquiste: la rinascita della civiltà riconduce al caos primordiale, a forme di vita ataviche e barbare. La ragione cessa di esistere e lascia il posto a un farneticare incessante. Se il 2001 di Kubrick (a cui spesso quest’opera è stata affiancata per il potere di suggestione) si costituiva come l’odissea del silenzio, Sul globo d’argento si dà come epopea dell’esplosione indifferenziata del suono, del grido, della parola, quasi sempre indicibile, oscura, impenetrabile. E ai monologhi filosofici e criptici di cui il film si compone quasi interamente, si affiancano i movimenti magmatici dei corpi (e di una macchina da presa quanto mai mobile), i loro contorcimenti inquietanti, unici possibili significanti del caos primordiale, reiterato, eterno che per Żuławski si costituisce come l’orizzonte stesso del vivere, personale e collettivo. Esemplari a questo proposito le parole finale che gettano un ponte tra l’antropogonia lunare e il vivere sociale: “Nel frattempo il piccolo dramma di questo film e il grande e speriamo onorabile dramma della nostra vita, continueranno ad intrecciarsi in un mosaico comune di voli di successo e di atterraggi di emergenza. Il mio nome è Andrzej Żuławski, e sono il regista del film Sul Globo d’Argento.

Decalogo 10 (Dekalog, dziesięć), Krzysztof Kieślowski (1988)

Decalogo 10 (Dekalog, dziesięć), Krzysztof Kieślowski (1988)

Su connotati estetici diversi muove l’opera di Krzysztof Kieślowski, altro straordinario regista polacco la cui scelta ha condotto all’esclusione necessaria di nomi pressoché imprescindibili (da Andrej Wajda a Roman Polanski, passando per Andrzej Munk, Krzysztof Zanussi, Jerzy Skolimowski e Wojciech Has). Il suo cinema si propone prima di ogni altra cosa come un rigoroso scandaglio interiore di uomini e donne posti di fronte a laceranti dilemmi esistenziali, aprendosi in questo senso a spaccati di profondità psicologica impressionante dell’uomo tout court, coniugati a una riflessione sofferta e mai risolta sulla presenza/assenza del divino e sulla natura del caso.
In questo senso, l’opera più drasticamente esemplare del suo universo filmico non può che essere il Decalogo, serie di 10 mediometraggi prodotti per la televisione polacca scritti insieme al suo fidato collaboratore Krzysztof Piesiewicz, intesa come reinterpretazione laica dei dieci comandamenti biblici. Ogni tassello di questo fluviale e -da intendere come- unico capolavoro è imperniato sulla “straordinaria” quotidianità di protagonisti epifanizzati in momenti di crisi. C’è un senso di vita spiata, di intimità colta nella sua datità più nuda e sincera, come testimonia il personaggio -sottomesso a una mai conclusa attività interpretativa- del testimone silenzioso che compare in scena (in 8 film su 10) per pochi secondi e, senza dir nulla, rivolge lo sguardo ai personaggi e alla macchina da presa, interpellando direttamente lo spettatore, chiamandolo in causa in quanto possibile referente di una situazione non solo drammatizzata ma concretamente tangibile perché estendibile a ognuno di noi.
In questo ineguagliato affresco esistenziale, ovviamente, il riferimento ai comandamenti è spesso labile, ironico o rovesciato di segno. Può così accadere che la celebrazione della vigilia di natale diventi il momento privilegiato per la “traversata notturna di una Varsavia invernale e livida” tra “ospedali, pronto soccorso, polizia, carceri per alcolizzati” (Morandini) in compagnia di un vecchio amore da salvare e attraverso cui salvarsi. Oppure che la collezione di francobolli che un intero quartiere si contende in modo acerrimo costituisca il mezzo attraverso cui due fratelli si riscoprano l’uno in relazione all’altro, stretti testa contro testa, tornati come d’incanto in quello spazio liminale dell’infanzia, in cui non contano più i problemi dei grandi, dove “in pratica non c’è più nulla di importante” e si può essere ancora abbastanza ingenui da pensare a come sarebbe bello “se davvero tutto il resto non esistesse”.

La recita (Ο Θίασος), Theodoros Angelopoulos (1975)

La recita (Ο Θίασος), Theodoros Angelopoulos (1975)

Chiudo questo piccolo itinerario nell’affascinante interzona del cinema d’autore europeo, scendendo nei Balcani e omaggiando il cineasta che -forse- ne ha rappresentato lo spirito in modo più netto e radicale. Sto parlando del greco Theo Angelopoulos, cantore privilegiato della propria nazione e portavoce di un cinema in grado di sublimare il tempo e insieme la sua vertigine. Attraverso il ritmo ipnotico, il valore quasi sacrale del silenzio e la lentezza esasperante di pellicole che fanno del piano-sequenza -spesso lunghissimi- la propria cifra stilistica dominante (quasi al pari di uno Jancsó, altro straordinario cineasta -ungherese- al quale ho dovuto rinunciare), Angelopoulos mira a penetrare l’essenza stessa del tempo vissuto fino a coglierne l’intimo paradosso, il suo continuo e perpetuo riavvolgimento. Filmando il suo flusso silenzioso, il regista greco giunge a (con)fondere la Storia con il Mito, gli anfratti memoriali con la fattualità del vivere. Da questo punto di vista, il suo apice non può che essere il fluviale -e praticamente sconosciuto- La recita, affresco collettivo che mette su celluloide un quindicennio di storia greca (dal ’39 al ’52), evidenziando il passaggio tra due dittature: da quella di Metaxas, nel ’36, a quella di Papagos, separate da alcune tappe fondamentali come l’intervento italiano e britannico, l’occupazione nazista, la lotta partigiana. Insieme, il film segue le vicende di una compagnia teatrale itinerante che propone di città in città il dramma erotico Golfo la pastorella. Un gruppo di protagonisti che replica -in una sorta di struttura a scatole cinesi- gli eventi dell’Orestea eschilea: dal tradimento del capofamiglia perpetrato da una moglie infedele e dal suo amante, all’uccisione dei due traditori per mano del figlio Oreste (coadiuvato dalla sorella Elettra). In questo senso, la Storia greca si mescola, e spesso si sovrappone, al mito degli Atridi all’interno di una struttura drammaturgica che si propone probabilmente come il più alto risultato -almeno nella seconda metà del Novecento- di applicazione cinematografica dell’epica di Brecht ovvero -molto sinteticamente- una concezione dell’opera teatrale -e per estensione narrativa- fondata sul rigetto del concetto di immedesimazione spettatoriale (che secondo il tedesco condurrebbe a una passività sterile dello spettatore) e sull’applicazione di un nuovo tipo di drammaturgia in cui la rottura della quarta parete (con gli attori che si rivolgono direttamente all’uditorio) e della linearità diegetica (Brecht prediligeva strutture narrative spezzate, in cui una scena seguiva la precedente secondo rapporti temporali liberi, spostando ad esempio la linea dell’azione anche di molti anni) produceva un coinvolgimento attivo del pubblico, costretto a riflettere, a saturare i buchi neri del narrato e dunque ad impiegare la propria intelligenza interpretativa.
La recita si compone non a caso come una successione di blocchi isolati in un autonomo “gioco” spazio-temporale in cui lo spettatore è continuamente chiamato in causa per metter ordine (e il più delle volte, se appassionato, a rivedere più di una volta la pellicola). A questa confusione, si aggiungono la frequente sovrapposizione di registri e livelli narrativi (la Storia, la compagnia itinerante e gli Atridi) e i momenti in cui il flusso narrativo si interrompe e gli attori, rompendo momentaneamente la regola non scritta della verosimiglianza, si rivolgono direttamente alla macchina da presa, raccontando alcuni frammenti della propria vicenda esistenziale. Tali espedienti -oltre che frutto di una programmatica volontà di applicare Brecht al cinema- si danno come strumenti imprescindibili per una lettura in chiave pessimista della storia greca, narrata come un eterno susseguirsi di pratiche di dominio e sopraffazione (in un parallelo interessante con il sopracitato Sul globo d’argento che però parla -come visto- con una “lingua” decisamente diversa). Il continuo riverberarsi su sé stesso del tempo non è altro che la concretizzazione filmica dell’eterno ritorno nietzschiano. Non è un caso che il film inizi e finisca con la stessa inquadratura, quella dei teatranti fermi di fronte alla stazione del treno, tornati di nuovo in paese. Ma se all’inizio una voce over -riconducibile, eisenteiniamente parlando, all’intero gruppo- dichiara in un tono da diario di bordo: “Autunno del ’52: siamo tornati a Eghion”, nel finale claustrofobicamente chiuso nello stesso luogo, la medesima voce si smentisce, dicendo: “ Autunno del ’36: siamo tornati a Eghion”, annullando così la speranza utopica di una rinascita dalle proprie ceneri e annunciando invece la ripetizione di una storia tragica a cui lo spettatore ha già assistito.

Stefano Oddi

 

FILMOGRAFIA COMPLETA

Acausa della grande prolificità di molti registi e al fine di fornire uno spettro più ampio possibile di titoli, vi rinviamo per le filmografie agli schedari dell’Internet Movies Database.


Luis Buñuel
http://www.imdb.com/name/nm0000320/?ref_=nv_sr_1#director

Werner Herzog
http://www.imdb.com/name/nm0001348/?ref_=nv_sr_1#director


Rainer Werner Fassbinder
http://www.imdb.com/name/nm0001202/?ref_=nv_sr_1#director

Lindsay Anderson
http://www.imdb.com/name/nm0000755/?ref_=nv_sr_1#director

Ingmar Bergman
http://www.imdb.com/name/nm0000005/?ref_=nv_sr_1#director

Andrzej Żuławski
http://www.imdb.com/name/nm0958558/?ref_=nv_sr_2#director

Krzysztof Kieślowski
http://www.imdb.com/name/nm0001425/?ref_=nv_sr_1#director

Theodoros Angelopoulos
http://www.imdb.com/name/nm0000766/?ref_=nv_sr_1#director


Bertrand Tavernier

http://www.imdb.com/name/nm0851724/?ref_=nv_sr_1#director

Jacques Tati
http://www.imdb.com/name/nm0004244/?ref_=nv_sr_2#director

Claude Lanzmann

http://www.imdb.com/name/nm0487351/?ref_=nv_sr_1#director


Maurice Pialat

http://www.imdb.com/name/nm0681207/?ref_=nv_sr_1#director


Agnes Varda

http://www.imdb.com/name/nm0889513/?ref_=nv_sr_1#director


Jean-Marie Straub e Danièle Huillet

http://www.imdb.com/name/nm0833708/?ref_=fn_al_nm_1#director


Chantal Akerman

http://www.imdb.com/name/nm0001901/?ref_=fn_al_nm_1#director


Edgar Reitz
http://www.imdb.com/name/nm0718671/?ref_=nv_sr_1#director

Wim Wenders

http://www.imdb.com/name/nm0000694/?ref_=nv_sr_1#director

Margarethe von Trotta

http://www.imdb.com/name/nm0903137/?ref_=fn_al_nm_1#director

Alexander Kluge

http://www.imdb.com/name/nm0460176/?ref_=fn_al_nm_1#director

Tony Richardson
http://www.imdb.com/name/nm0724798/?ref_=nv_sr_1#director

Karel Reisz
http://www.imdb.com/name/nm0718554/?ref_=nv_sr_1#director

Andrej Wajda

http://www.imdb.com/name/nm0906667/?ref_=nv_sr_1#director

Roman Polanski

http://www.imdb.com/name/nm0000591/?ref_=nv_sr_1#director

Andrzej Munk

http://www.imdb.com/name/nm0612914/?ref_=fn_al_nm_1#director

Krzysztof Zanussi

http://www.imdb.com/name/nm0953130/?ref_=fn_al_nm_1#director

Jerzy Skolimowski

http://www.imdb.com/name/nm0804592/?ref_=nv_sr_1#director

Wojciech Has
http://www.imdb.com/name/nm0367860/?ref_=fn_al_nm_1#director

Miklos Jancso
http://www.imdb.com/name/nm0417352/#director

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