Connect with us

Interviews

“Hiver à Sokcho”: intervista a Bella Kim

L’intensa, splendida attrice e modella franco-coreana ci ha raccontato come sia arrivata a interpretare il film di Koya Kamura, vincitore al Bergamo Film Meeting del Premio per la Migliore Regia

Pubblicato

il

Oggi 6 aprile 2025 nell’ambito di RENDEZ-VOUS, festival italiano dedicato alle migliori produzioni cinematografiche francesi, verrà proiettato anche a Roma (Cinema Nuovo Sacher, ore 15.45) l’emozionante Hiver à Sokcho (Inverno a Socko, 2024) di Koya Kamura; tale co-produzione tra Francia e Corea del Sud ci era già nota però grazie al recente, fortunato passaggio al 43° Bergamo Film Meeting, dove il film ha ricevuto anche il Premio per la Migliore Regia del valore di 2.000 euro. Questa è la motivazione offerta dalla giuria internazionale composta da Dániel Hevér (regista), Andrea Inzerillo (direttore artistico Sicilia Queer filmfest) e Tiina Lokk (direttrice artistica Black Nights Film Festival di Tallinn): «La giuria è stata particolarmente colpita dal modo in cui questa opera prima utilizza materiale complesso a livello registico. La fotografia, il montaggio e la recitazione lavorano magistralmente insieme per creare aspettative sulla ricucitura della famiglia, la ricerca dell’amore e l’arrivo della primavera. Il film ritrae la ricerca dell’identità in modo sensibile e sottile, raccontando una storia di parallelismi generazionali e culturali. Una meteorologia dell’anima che è sempre molto articolata ed intensa. Per questi motivi, il Premio alla miglior regia di Bergamo Film Meeting 43 va a Hiver à Sokcho/Winter in Sokcho di Koya Kamura»

Noialtri proprio a Bergamo abbiamo avuto la fortuna e il piacere di conoscere Bella Kim, la protagonista del film, che da allora ha ricevuto anche per la sua interpretazione una Menzione Speciale al Sofia International Film Festival. Ma è dal precedente incontro in terra orobica che si è poi sviluppata questa stimolante, intensa conversazione…

Gli inizi della carriera e l’incontro con Koya Kamura

Prima di parlare di “Hiver à Sokcho”, potresti raccontarci brevemente come è iniziata e come si sta sviluppando la tua carriera, sia come attrice che come modella?

Mi sento fortunata ad aver iniziato questa splendida carriera proprio grazie al destino.
Ho scelto di venire a Parigi per studiare il mercato dell’arte, poiché sono sempre stata appassionata di Storia dell’Arte, in particolare dell’Impressionismo. Parigi mi è sembrata quindi il posto giusto.
Sono stata notata da un direttore di casting per strada quando ero una studentessa universitaria e da allora lavoro come modella a Parigi, da ben otto anni.
Ho collaborato con marchi come Hermès, Gucci, Dior e Isabel Marant in vari settori: commerciale, bellezza, showroom, passerelle ed editoriale.
Per passare poi a come è iniziato il mio percorso da attrice, un produttore coreano mi ha contattata tramite Instagram per chiedermi se fossi interessata a fare il provino per un film.
Stavano cercando specificamente un’attrice coreana che vivesse a Parigi e parlasse fluentemente francese. Dopo tre mesi di provini, mi è stato finalmente offerto il ruolo.
Sono davvero grata di aver scoperto questo mondo e, attraverso di esso, parti di me stessa che non sapevo esistessero. Niente di tutto questo sarebbe successo se non avessi percorso tale strada.

Come è avvenuto l’incontro con il regista Koya Kamura e con il romanzo che egli ha scelto di adattare? Peraltro nel film tutti gli attori principali, compresa te, appaiono di altissimo livello: com’è stato per esempio lavorare con Mi-Hyeon Park, che interpreta tua madre?

È stato tutto affascinante. Mi sono sentita profondamente attratta dal romanzo originale di Elisa Shua Dusapin, quando l’ho letto per la prima volta: mi ha davvero colpito. Ho avvertito un forte legame con il personaggio principale, poiché condividevamo molti punti in comune. Allo stesso tempo, ho apprezzato molto la sceneggiatura co-scritta da Koya Kamura e Stéphane Ly-Cuong, che ha posto ancora più enfasi sulla ricerca dell’identità. Come hai detto, il cast era assolutamente incredibile. Mi-Hyeon Park, che ha interpretato mia madre, è già nota in Corea per il suo lavoro in televisione e al cinema, ma questo è stato il suo primo progetto internazionale. Taeho Ryu, che ha interpretato il capo di Sooha, è anche lui un attore molto famoso in Corea: ha persino lavorato con il regista Bong Joon-ho in Memories of Murder. La zia, interpretata da Jung Kyung-soon, è un’attrice veterana con una lunga carriera sia a teatro che al cinema. Ha una presenza davvero brillante in questo film. Tutti loro hanno più di 30 anni di esperienza nel campo della recitazione. Sono rimasta davvero colpita da quanto siano stati gentili, premurosi e generosi con me, che sono una nuova arrivata. Mi hanno supportato durante tutte le riprese e sono stati sinceramente curiosi e aperti, anche riguardo al lavorare a un progetto internazionale con Koya Kamura.
In realtà, nell’intera troupe, solo tre di noi parlavano contemporaneamente francese, coreano e inglese. Quindi comunicavamo esclusivamente in inglese, che non era la lingua madre per la maggior parte di noi. Ma ciò che ho capito è che il cinema può trascendere la lingua. Siamo stati in grado di capirci profondamente e di connetterci attraverso la nostra energia e le esperienze condivise.
Ecco perché trovo Koya un regista così straordinario. Sebbene non parli coreano, ha gestito la troupe e gli attori coreani con grande cura e chiarezza durante le prime tre settimane di lavorazione. La sua direzione è stata fluida e sempre attenta.
Per quanto mi riguarda, avevo lavorato solo con troupe francesi prima di questo film. Quindi è stata un’esperienza davvero bella e commovente, in cui diverse culture lavorative si sono incontrate e hanno collaborato con rispetto reciproco rispetto.

E riguardo all’incontro con Roschdy Zem, “il francese” del film, altro elemento così carismatico?

Apprezzo molto il fatto di aver potuto iniziare la mia carriera di attrice accanto a un talmente leggendario attore francese.
Durante i tre mesi di audizioni, alcuni dei suoi film erano in programmazione nei cinema, quindi, a essere onesti, ho sentito molta pressione prima di incontrarlo.
Ma la prima volta che ci siamo incontrati è stato per una lettura della sceneggiatura e ricordo quel giorno molto chiaramente.
Mi ha fatto sentire subito a mio agio, forse ha intuito che ero nervosa.
Dopo quella lettura, sono stata in grado di lasciar andare la pressione e concentrarmi semplicemente sul diventare il personaggio nel corso delle riprese.
Lavorare con lui, e con gli attori coreani esperti, mi ha insegnato molto, non solo professionalmente, ma anche personalmente.
È stata un’esperienza formativa per me, non solo come attrice, ma anche come essere umano.

Un’interpretazione intensa… anche in cucina

Per quanto riguarda la tua e la loro interpretazione, ci sembra di cogliere due livelli importanti, uno fortemente spirituale, interiore… e poi un aspetto più fisico, materiale, sensoriale, che contempla relazioni molto strette con il corpo, con il cibo, con l’atto del dipingere. Come la vedi tu a riguardo?

Un giorno, qualcuno mi ha detto che questa è una storia molto femminile. Ma, personalmente, non ci avevo mai pensato prima, in questa maniera. Per me, riguarda più il viaggio di auto-scoperta, non solo per una ragazza, ma per un qualsiasi essere umano.
Come esseri umani, tutti noi viviamo momenti di connessione e disconnessione, con i nostri corpi, le nostre menti, i nostri spiriti. Ci sto ancora riflettendo. Mi sto ancora sforzando di capirlo.
Non possiamo davvero staccarci da quelle parti di noi stessi, anche quando ci proviamo. Ho capito che non si tratta di distacco, ma di interazione. Tutto è in costante interazione.
Pratico meditazione da quattro anni. Quando sono andata a Bali, il mio insegnante m’ha chiesto di visualizzare me stessa in tre parti: corpo, mente e spirito, e di osservarle come entità separate, ma
connesse. Non avrei mai immaginato di potermi osservare in quel modo.
In questi giorni, sto imparando a fare il punto con me stessa. Dov’è il mio corpo? Dove è radicato il mio spirito?
Dove è rivolta la mia mente? Sono allineati? Si sentono bene? Il mio ego è presente o è silenzio?
Tengo un diario ogni giorno. A volte è solo uno “svuotare la mente”, a volte è un dialogo interiore. Attraverso questo, sto cercando di capire chi sono davvero. Sono complicata, ma anche semplice. In un certo senso, mi sento come se mi stessi rieducando, cercando di prendermi cura di me stessa come se fossi mia figlia.
Sono sempre stata una persona molto indipendente. Vivendo da sola all’estero per dieci anni, dovevo esserlo. Ho lavorato duramente per costruire quella forza interiore. Ma, di recente, ho iniziato a sentire che nulla esiste veramente nell’isolamento. Anche le cose da cui pensavo di essermi staccata, sono ancora in interazione con tutto il resto.
Tutto è connesso. Non solo la mia mente, il mio corpo e il mio spirito, ma anche il cibo che mangio, le persone che incontro, l’atmosfera che mi circonda. Non sono un individuo isolato, appartengo a qualcosa di molto più grande, sia dentro che oltre me stessa. E partendo da questa consapevolezza, provo più gratitudine.
Man mano che ho imparato a conoscere e ad amare me stessa, ho imparato ad amare gli altri e ad amare il mondo.
Voglio essere qualcuno che sa riconoscere la bellezza. Che sa sentirla e vederla.
Quindi, per me, questo film non parla solo di una giovane donna che affronta conflitti esterni. Riguarda il viaggio interiore, la scoperta di sé e del suo posto nel mondo. Questa è una storia umana. E credo che sia per questo che il pubblico, indipendentemente da età, sesso o background, può entrare in sintonia con essa. Perché alla fine, tutto è connesso.

Proprio a proposito di cibo, durante il nostro primo incontro a Bergamo hai raccontato alcune curiose esperienze riguardo al tuo rapporto con la cucina e a come sia migliorato sul set. Puoi accennare qualcosa anche ai nostri lettori?

Nel film, il cibo ha un ruolo molto importante.
È un modo per esprimere amore, un linguaggio che unisce madre e figlia, e anche un modo per mostrare il proprio cuore agli altri.
Mi è sempre piaciuto cucinare.
Dopo aver vissuto da sola per quasi dieci anni, ho pensato che avrei dovuto almeno essere in grado di nutrirmi bene.
Prima delle riprese, il regista mi ha chiesto se in cucina ero brava con il coltello, così ho inviato un video di me mentre cucino.
Tuttavia, per far apparire il personaggio più esperto, ho trascorso ore nella mia stanza d’albergo a tagliare ravanelli e carote.
Riesco ancora a ricordare il ritmo del taglio, la sensazione del coltello, mi è rimasta impressa.
Uno dei piatti presenti nel film, lo stufato di calamari, è in realtà una specialità della mia città natale, Sokcho.
È un piatto al vapore fatto riempiendo un calamaro intero con vari ingredienti. Il polpo piccante saltato in padella, che appare anche nel film, è uno dei miei piatti preferiti.
Per quanto riguarda il pesce palla o fugu, che in una scena ha un ruolo chiave, è un pesce che a livello legale richiede una licenza per essere preparato in Corea, quindi abbiamo avuto uno chef professionista di Fugu sul set per quella parte delle riprese.
Prima di girare, ho anche seguito un corso di cucina privato con Jin Hee-won, la food stylist presente dietro al film Little Forest, un film meravigliosamente quieto e sentito sulla vita quotidiana e la cucina.
Sono così grata per le sue ricette delicate e per il modo in cui vede il cibo.
La sua guida mi ha aiutato a immergermi completamente nel personaggio attraverso la cucina.

Un incontro tra culture

Ora una domanda più diretta: le tue origini e le tue esperienze biografiche ti hanno messo a contatto con due culture diverse, quella francese e quella coreana. Che legame pensi di avere con ciascuna delle due? Ci sono cose ad esempio del cinema francese e coreano che apprezzi particolarmente?

Sembra quasi che tu ti stia chiedendo: preferisco mia madre o mio padre? Ma amo entrambi.
E forse è per questo che mi sento veramente franco-coreana,perché amo lavorare sodo come i coreani, ma amo anche rilassarmi e prendermi del tempo, come i francesi.
Quando vivevo in Corea, mi sembrava naturale, quasi senza sforzo, crescere circondata da drammi e film coreani.
La ricchezza di quell’ambiente culturale era così radicata nella mia vita quotidiana che non me la sono nemmeno posta.
È stato solo quando mi sono trasferita all’estero che ho iniziato a vedere i media coreani attraverso gli occhi degli altri, persone che li ammirano dall’esterno.
È stato allora che ho capito davvero quanto sia ricca culturalmente la Corea, e quanto siano intelligenti, creativi e motivati ​​i coreani.
Ogni volta che torno, rimango stupita.
Le cose evolvono così velocemente, a volte è difficile tenere il passo. Ma ora capisco perché la cultura coreana è considerata così dinamica, influente e di tendenza in tutto il mondo.
Allo stesso tempo, la cultura francese ha profondamente plasmato chi sono diventato nei miei vent’anni.
Certo, ogni città o gruppo in Francia è diverso, ma in quasi un decennio a Parigi, una delle cose più importanti che ho imparato è come abbracciare pienamente chi
sono.
A Parigi, tutti vogliono brillare e le persone si aiutano a vicenda.
L’individualità non è solo accettata, è celebrata.
E c’è questo bellissimo ritmo nella vita: ogni estate, l’intero paese rallenta. Per un mese, la Francia semplicemente… si riposa.
All’inizio è stato uno shock per me come coreano, ma ora, vedo anche agosto come sacro.
Tutti vanno a sud per prendere il sole.
Una volta ho letto una frase che diceva: “Non ci restano nemmeno cento estati”.
E quella frase mi è rimasta impressa.
Penso che sia per questo che ho imparato ad apprezzare l’approccio francese alla vita, ad assaporarla lentamente.
Ora dico spesso: Lavoro come un coreano, ma vivo come un francese.
In un certo senso, mi sento un ibrido culturale, un neo-métis di due mondi.
E forse è per questo che vedo il cinema come lo vedo.
Per me, il cinema francese è poesia.
Il cinema coreano è più letteratura.
I film coreani tendono a essere strutturati, con un forte arco narrativo – sono creati per raccontare una storia.
Il cinema francese, d’altro canto, è una questione di sensazioni.
Non sempre racconta, ma ti fa sempre sentire.
E per apprezzarlo appieno, penso che tu abbia bisogno di un certo tipo di sensibilità.

Infine, cosa ti ha colpito di questa esperienza al Bergamo Film Meeting e che legame hai, più in generale, con l’Italia?

Devo dirlo: il nostro autore, Koya Kamura, ha vinto il premio come Miglior Regista al Bergamo Film Meeting.
Sono davvero orgogliosa e profondamente grata. Se lo merita davvero.
Ho anche trovato un bellissimo articolo riguardante il nostro film su Il Manifesto, così sono uscita e ho comprato il giornale.
Mi sembra ancora surreale.
Questo è stato in realtà il mio primo festival cinematografico senza aver dietro il nostro team, eppure, mi sono sentita accolto calorosamente fin dall’inizio.
Tutti quelli che ho incontrato, dai registi, giornalisti (incluso te!), distributori, professori, ai professionisti del cinema provenienti da tutto il mondo, sono stati incredibilmente generosi, stimolanti e gentili.
Abbiamo condiviso pensieri, idee e persino domande filosofiche.
Un ricordo particolarmente toccante è stato quando ho visitato gli studenti del Liceo Falcone, dove ho avuto la possibilità di incontrare studenti delle superiori che stanno imparando il coreano.
Uno dei loro insegnanti aveva assistito alla nostra proiezione e mi aveva gentilmente invitato a scuola.
Ha significato molto per me, perché quando avevo la loro età, ho imparato a mia volta il francese! Vorrei cogliere l’occasione per ringraziarli ancora, attraverso questa intervista, per il loro caloroso benvenuto.
C’era un’atmosfera gentile, quasi familiare durante l’intero festival.
Si poteva percepire quanto tutti fossero sinceramente felici di farne parte.
Mi sono sentito profondamente connessa: alle persone, all’energia e alla città stessa.
Ancora una volta, voglio esprimere la mia sincera gratitudine al festival e a tutti i partecipanti.
È stata un’esperienza talmente bella e significativa.