Ritorna in sala dal 31 marzo al 2 aprile Taxi Driver (1976) di Martin Scorsese in versione restaurata in 4 K distribuita da Nexo Studios in collaborazione con MYmovies, preludio al 50° anniversario dell’anno venturo e rilancio celebrativo impermeabile alla mera scansione delle ricorrenze. In un evento speciale rivive sul grande schermo la potenza estetica neo-noir e la fiammeggiante partitura drammatica di un’opera imprescindibile per gli anni Settanta che, travalicando i confini del cinema statunitense, sviscera, oggi come al tempo, inquietudine e identificazione nell’eterna crisi dell’uomo occidentale, con la barocca magniloquenza stilistica di un giovane autore che impose la forza espressiva della New Hollywood, trafugando e sublimando, nel proprio estro di contrapposte influenze e nel calvario esistenziale dello sceneggiatore Paul Schrader, turbamenti sociali e tendenze filmiche emergenti.
America 1976, ritraeteli senza pietà
Consacrato dalle interpretazioni tecnicamente eterogenee di un cast coeso (Robert De Niro, Jodie Foster, Cybill Shepherd, Harvey Keitel, Albert Brooks, Peter Boyle), alla sua uscita Taxi Driver, con l’anabasi del protagonista Travis Bickle, divise pubblico e critica nel concitato clima ideologico del decennio (per l’ambigua vena reazionaria del personaggio), conquistò un primato nel canone dei capolavori scorsesiani contro la popolarità più rappresentativa di altre pellicole di folklorismo italo-americano, fu equivocato a simulacro di emulazione (l’attentato politico di un fanatico fan del film e di Jodie Foster), saccheggiato come manuale analitico di messinscena, eletto a catalogo di citazioni e parodie tracciando un immaginario di icone (la camminata di De Niro per le streets di New York, il monologo allo specchio).
La Palma d’oro a Cannes del 1976 (Presidente di giuria: Tennessee Williams) è il notturno urbano di traumatica solitudine di un insonne e illetterato tassista, crudo, diversamente romantico, modernamente trainante; la controversa tragedia on the road di refrattaria catarsi di un loser rigurgitato dal Vietnam e da una New York poeticamente pre-apocalittica; la beffarda antifrasi dell’American Dream nelle contraddizioni di una civiltà al crepuscolo, che incanta e scuote per quel proverbiale nitore della grandezza dei classici nei riverberi eterni del contemporaneo.
“Vengono fuori gli animali più strani, la notte: puttane, sfruttatori, mendicanti, drogati, spacciatori di droga, ladri, scippatori. Un giorno o l’altro verrà un altro diluvio universale e ripulirà le strade una volta per sempre”.

Per gentile concessione di Nexo Studios
Nell’antro degli alchimisti: alle radici di un film spartiacque
Come (quasi) ogni storia (produttiva) nella storia (diegetica) di ogni opera di incontrovertibile valore che si rispetti, esiste un background (con bibliografia annessa) di aneddoti, macchinazioni del caso, coincidenze del destino, nello sconfinamento nell’allure della leggenda che forse possiede solo la scrittura della mitografia, ma indubbiamente attesta la congiuntura provvidenziale di talento e audace lungimiranza nella conversione di un’inesorabile via maestra di ispirazione, fino a una realizzazione artistica che è anche uno spaccato di cinema e società a stelle e strisce.
Agli albori del processo creativo di Taxi Driver tra il 1973 e il 1975 si erge, almeno una volta, la figura, per vocazione defilata, di un critico coltissimo, promettente sceneggiatore sul baratro dell’oblio, inghiottito dalla depressione alcolica post-divorzio, un infelice errante di salute compromessa. Subentra poi un innovativo cinefilo in cerca di nuove sfide espressive, con esordi di carriera costellati di consensi, tra i quali per Mean Streets e Alice non abita più qui; una partnership tra i due favorita da un comune amico e cineasta, Brian De Palma, che, impegnato con Complesso di colpa, rifilò a Scorsese uno script accantonato di Schrader, ispirato ad Arthur Bremer, l’attentatore del governatore George Wallace.
Infine, due produttori reduci dagli incassi stellari di La stangata, Michael e Julia Phillips, che prospettano un prodotto di nicchia con inclinazioni del New American Cinema; non per ultimo, un maestro delle colonne musicali, Bernard Hermann, già prediletto da Alfred Hitchcock, che, sdegnato dalla proposta di cimentarsi nel racconto su un umile tassista, rifiutò la partecipazione al progetto, ma solo inizialmente. Il corollario è un excursus di microstorie attoriali non meno attraenti, dal sodalizio sempre più rodato e di imperitura fortuna tra Scorsese e l’antidivo De Niro (occupato nelle riprese italiane di Novecento di Bernardo Bertolucci), con il suo rigoroso Metodo e il plumbeo carisma, alla scommessa vincente con la tredicenne bambina prodigio Jodie Foster, dalla professionalità scostante del protagonista verso Cybill Shepherd, musa di Peter Bogdanovich (per un presunto flirt respinto), a Harvey Keitel, un seguace di Stanislavskij più inflessibile di De Niro stesso.
Una galleria di collaboratori e interpreti in stato di grazia (o di disgrazia redenta, come per Schrader) suggellata dallo stesso Scorsese, per l’unica volta in un doppio ruolo in un suo lavoro (un cameo per strada e un cliente stalker di Travis), nell’appropriazione quasi affettiva del suo film più incisivo, nella storia della cronaca, del costume, del cinema.

Per gentile concessione di Nexo Studios
Sacro e profano: echi formativi
Raramente un film ha compendiato ascendenze culturali, suggestioni letterarie, rielaborazioni filmiche, lezioni dei maestri, autorialità e semiautobiografismo in un equilibrio così pulsante di originalità di visione e compostezza formale, tuffo e risalita nella corrente della narrativa psicologica e introspettiva, del cinema più altisonante, delle tradizioni secolari orientali, ma anche nella coscienza intatta di un reale multiforme e fagocitante, in una Grande Mela marcia e consumata, che è sineddoche non della nazione tout court, ma della sua violenza inusitata e dilagante, della sovversione dell’eroismo statunitense, dell’iconoclastia della spettacolarizzazione dell’individualismo e della fama, della morbosità della sessualità sbandierata.
Così, nella tenebrosa alienazione, tra colpa e illusione di riscatto, di un ex marine improvvisatosi tassista notturno, dipendente da junk food e pellicole per adulti, nella fede laica in una qualsivoglia missione ossessiva (una donna di stilnovista effigie da conquistare, una prostituta preadolescente da salvare), l’anomalo connubio di attrazione dei contrati del cattolico, newyorkese Scorsese e dell’ex calvinista, provinciale Schrader accosta l’enfasi sperimentale di Eisenstein e Orson Welles all’essenzialità trascendentale di Robert Bresson e C. T. Dreyer, evocazioni bibliche alle cadenze diaristiche di Bernanos, il sottosuolo di Dostoevskij a La noia di Sartre, il nostos omerico rigettato di Sentieri selvaggi di John Ford al melodramma infantile dickensiano, i cromatismi da Grand-Guignol all’etica sacrificale dei kamikaze nella sequenza della strage.
Mai più sullo schermo una rarefazione così impalpabile, estranea a una pregnanza manierista, nell’affrancata unicità che si appropria, riformula, integra, tra fotografia iperrealista (ad opera del compianto Michael Chapman) e frame in ralenti, cinepresa-specchio e piani in plongée, nell’ennesima e inedita incursione nello scavalcamento del visibile, in un produzione d’epoca che elesse il disturbante, la delinquenza, il proibito e l’efferatezza come nuova cifra tematica ed espressiva, dopo Gangster Story, New York ore 3: l’ora dei vigliacchi, Non aprite quella porta, Un tranquillo weekend di paura, Il giustiziere della notte, fino all’approdo del porno mainstream con La vera gola profonda e Miss Jones (assurto effettivamente a intrattenimento per coppie borghesi, come spiega goffamente Travis all’incredula e risentita Betsy).
“La solitudine mi ha perseguitato per tutta la vita, dappertutto. Nei bar, in macchina, per la strada, nei negozi, dappertutto. Non c’è scampo: sono nato per essere solo”.
Schegge di grandezza
Persino in una rifinitura registica virtuosistica senza stonature né eccessi come quella scorsesiana, non appare sconsiderato reperire e collezionare tocchi ancora più ascendenti, svettanti traiettorie di sguardi e di senso, imitati inserti epifanici: fulgidi e minuti momenti che liberano la mente, citando Fassbinder, radici nella memoria spettatoriale di un dialogo plurigenerazionale tra Taxi Driver e il suo sempre ritrovato pubblico.
Un movimento di macchina laterale durante una telefonata implorante di Travis a Betsy, che inquadra il vuoto di un corridoio, correlativo oggettivo del prosciugamento interiore del personaggio; il dettaglio in soggettiva delle bollicine di Alka-Seltzer in un bicchiere, citazione bressoniana (Diario di un ladro) già rilanciata da Godard (Due o tre cose che so di lei), di cui avrà memoria, passando da qui, Paolo Sorrentino in Il divo; il particolare degli occhi di Travis nello specchietto retrovisore, metaforico diaframma di uno scostamento universale con il mondo, fino a un nevrotico guizzo sonoro nel finale, cacofonico ritorno all’uguale nell’insolubile conservazione dell’umano tra le lerce rovine dell’annichilimento dell’io, come Sentieri selvaggi si dissolveva nell’emarginazione di John Wayne in un deserto non solo paesaggistico. E, infatti, con la parola “niente” si chiude Taxi Driver, in questo tutto di grande cinema.