Nel programma dedicato a Hwang Jung-min al Korean Film Fest 2025 spicca un titolo molto interessante: Ode to My Father (2014) di Yoon Je-kyoon. Un’opera che, a suo modo, ha segnato la carriera del celebre attore così come la storia del cinema sudcoreano. Infatti, non solo al suo rilascio seguì uno dei più grandi incassi mai registrati nel Paese, ma fu anche il primo kolossal ad applicare un contratto di lavoro standard con la troupe fin dalla preproduzione. Tuttavia, se da una prospettiva pratica contribuì alla modernizzazione di un settore, spesso teatro di sfruttamenti nei confronti degli ultimi arrivati, i giovani, da un punto di vista ricettivo ebbe un effetto polarizzante, con una parte della critica che lo definì eccessivamente nostalgico.
In realtà, a più di dieci anni di distanza dalla sua uscita, il film meriterebbe una rilettura più obiettiva e meditata. Ode to My Father nasce dall’intima e sincera volontà di Yoon Je-kyoon di parlare del proprio padre e di come la sua generazione si sia spesa per garantire un futuro migliore ai propri figli. Il risultato è un lungometraggio scorrevole e dal carattere pop, capace di soddisfare sia gli spettatori più pretenziosi che quelli meno esigenti. Una digressione temporale priva di un’ideologia passatista, che riesce a equilibrare leggerezza, divertimento e azione con momenti più drammatici e riflessivi.
Un viaggio nella storia sudcoreana del Secondo Novecento
Per chi non è specializzato in materia, Ode to My Father può essere una piacevole infarinatura di storia coreana. Yoon Je-kyoon ripercorre alcune tappe fondamentali del Secondo Novecento che hanno contribuito a definire il retaggio storico-culturale della Corea. Il metodo adottato da Yoon semplifica necessariamente le dinamiche geopolitiche intercorse nel tempo, prediligendo un punto di vista più intimo.

Attraverso la vicenda personale del protagonista Deoksoon, assistiamo a quanto le correnti, causate dai grandi eventi, si siano propagate fino all’ultimo, insostituibile e fondamentale tassello della compagine dello Stato: l’individuo e i suoi legami stretti. Vediamo un uomo sacrificare i propri sogni e le proprie aspirazioni per il bene dei propri cari, mentre in secondo piano scorrono tre decenni di storia coreana. Dall’evacuazione di Hungnam nel 1950, passando per l’esodo di lavoratori sudcoreani nelle miniere in Germania degli anni ’60 e la Guerra in Vietnam, fino al 1983, anno in cui andò in onda il celebre programma televisivo “Finding Dispersed People”, nato con l’obiettivo di ricongiungere familiari separati dalla Guerra di Corea e dalla successiva scissione in Corea del Nord e Corea del Sud.
Il passato esiste anche per continuare a insegnare
Strutturare il commento a Ode to My Father, partendo dalle critiche mossegli a suo tempo, può stimolare maggiori riflessioni. Il film è un chiaro omaggio alla resilienza e al sacrificio. Se alcuni vi hanno letto un semplificativo encomio alle vecchie generazioni, incapace di cogliere la complessa mutevolezza insita in qualsiasi società, lo hanno guardato con il paraocchi. Ode to My Father riconosce l’inevitabile esistenza del divario generazionale e dei conflitti che da esso derivano, ma, giustamente, punta i riflettori sulla perdita di ciò che era buono e giusto.

Yoon Je-kyoon non compone un inno ai “grandi e vecchi valori del passato” generalizzante, ma, piuttosto, sostiene che alcune virtù dovrebbero travalicare le leggi del tempo. Da quando in qua “sacrificio” e “resilienza” sono termini negativi? Come si può pensare di imparare solo dagli errori del passato e non anche da quanto nel passato era giusto? Sono dei quesiti retorici che bisogna tenere in considerazione quando si assiste a opere di questo tipo. Non si può travisare l’intento, sottoponendolo al setaccio di un moralismo astruso e incoerente. E non si deve cadere in polemiche tristemente dicotomiche. Yoon Je-kyoon mette in piedi un’operazione che nel confrontarsi con l’eredità storico-culturale del proprio Paese induce all’autoriflessione e all’autoanalisi.
Un film privo di un’ideologia nostalgica
Ode to My Father cerca di parlare a più generazioni. Per farlo Yoon Je-kyoon opta per determinate scelte stilistiche, volte ad alleggerire il carico di tragicità realmente vissuta durante quei drammatici momenti storici. Dissemina momenti di irresistibile comicità che, quasi sempre, hanno per protagonista Dal-goo, il fedelissimo amico del protagonista, interpretato da un simpaticissimo Oh Dal-su. Dal-goo incarna caricaturalmente tutti gli stereotipi e le usanze dei giovani del tempo, riportando la mente a qui personaggi “verdoniani” o “pozzzettiani” che tanto hanno animato la commedia-italiana tra gli anni ’70 e ’80. È una scelta intelligentissima che testimonia la consapevolezza di un regista che non solo ha chiaro il tragitto da percorrere, ma anche a bordo di quale mezzo farlo.

Questa sfumatura satirica non si ferma qui, ma colpisce anche il conservatorismo di cui è stato tanto bollato. Le scene patriottiche sono tutte estremamente ridicole. Per essere selezionati come minatori, Deok-soo e Dal-goo improvvisano l’inno nazionale, coinvolgendo tutto l’ufficio, esaminatori compresi, e ottengono il posto testualmente per grande amor verso la patria. In una seconda scena Deok-soo e la moglie (Younigin Kim) interrompono una discussione, per cantare alla bandiera con gli occhi lucidi. Sono tutte prove effettive di uno sguardo al passato privo di ideologie reazionarie e un motivo in più per recuperare questo piccolo gioiellino della cinematografia sudcoreana recente.