Arriva al cinema l'opera seconda del regista di 'The Guilty'. Un prison drama che riflette su violenza, colpa e redenzione con qualche schematismo di troppo
In sala dal 27 marzo, dopo essere passato alla Berlinale 2024, Sons (Vogter) è l’opera seconda dello svedese Gustav Möller. Un film, a metà strada tra thriller psicologico e dramma carcerario, che arriva dopo il grande successo dell’esordio Il colpevole – The Guilty (poi diventato anche un remake hollywoodiano con Jake Gyllenhaal) e che racconta del dilemma etico e morale di una guardia carceraria alle prese con un detenuto legato in qualche modo al suo passato.
‘Sons’: la trama
Eva (Sidse Babett Knudsen) è una guardia carceraria che crede fermamente nella riabilitazione dei detenuti. La sua routine, fatta di lezioni e sedute di meditazione, viene però sconvolta dall’arrivo di un misterioso giovane, Mikkel (Sebastian Bull). Con una scusa, Eva chiede subito il trasferimento nell’ala in cui il ragazzo è stato rinchiuso. Da quel momento dedicherà tutto il suo tempo e le sue energie per trasformare la vita del nuovo arrivato in un inferno.
Un dramma claustrofobico
“Certe persone non possono essere salvate”, dice un collega di Eva alla fine di Sons. Ma chi deve salvare chi in questo kammerspiel carcerario dove i torti e le ragioni si confondono tra loro mentre il senso di giustizia cede lentamente il passo a una vendetta cieca e crudele?
Al suo secondo lungometraggio, Möller mette da parte l’high concept movie e quella unità di luogo, tempo e azione che aveva fatto la fortuna del suo primo film continuando però a ragionare su temi come giustizia, senso di colpa e perdono attraverso le strutture del genere e le dinamiche di un mondo ancora una volta raccontato come opprimente e claustrofobico.
Il peso della vendetta
In questo thriller psicologico, dove il prison movie si contamina con il dramma famigliare e i volti dicono più di tante parole, va così in scena una storia fatta di violenza trattenuta e sentimenti sospesi. La parabola di abbrutimento di un personaggio scisso tra un passato troppo doloroso e un presente di espiazione in cui è impossibile continuare a rifugiarsi.
Un mondo senza speranza di cui il carcere è diretta emanazione. Microcosmo in cui prende vita il dilemma morale di una protagonista disposta a sacrificare i suoi stessi principi per una vendetta che la divora.
Un approccio (a tratti) didascalico
È una storia semplice, in fin dei conti, quella raccontata da Sons. Ben più classica nello stile e nella messa in scena di quanto lo fosse il precedente film dell’autore ma anche più convenzionale in termini banalmente narrativi. Sebbene i colpi di scena non manchino, infatti, sono proprio nella scrittura i maggiori difetti di un film per altri versi rigoroso. Attento ai sentimenti e ai caratteri messi in campo ma incapace di rifuggire appieno un didascalismo a tratti evidente.
Mentre, nel lento svelamento del suo mistero, comincia a emergere, prepotente, il tema della maternità, Sons sembra infatti rinunciare a una più complessa introspezione psicologica in favore di un non detto senza dubbio interessante (il passato di Eva, evocato ma mai mostrato esplicitamente) ma che tradisce un certo schematismo di fondo, tanto nella forma quanto, soprattutto, nel contenuto.