Elbow (Ellbogen) è un film del 2024 diretto da Aslı Özarslan, al suo esordio registico e co-scritto assieme a Claudia Schaefer. La storia è un adattamento dell’omonimo best seller della giornalista Fatma Aydemir. I principali membri del cast sono Melia Kara, Jamilah Badgach, Doğa Gürer e Haydar Şahin.
Il film è una produzione franco-turco-tedesca ed è stato presentato in Italia al Festival del cinema tedesco presso il cinema Quattro Fontane di Roma.
Hazal (Melia Kara) è una ragazza tedesca di seconda generazione, di ascendenza turca, che sta per compiere diciotto anni. Vive a Berlino, sua madre è una panettiera e suo padre un tassista. Ha anche un fratello minore e intrattiene frequenti e segrete videochiamate con Mehmet (Doğa Gürer), impiegato presso un call center a Istanbul. Spesso soggetta alla xenofobia che contraddistingue la società tedesca, spera di trovare presto un impiego come formatrice e che la maggiore età sia per lei un momento di liberazione dalle pressioni familiari. Ma le cose non vanno come auspicato. La sera del suo diciottesimo, Hazal viene respinta assieme a due amiche dalla discoteca dove erano dirette per i festeggiamenti. Ritrovatesi dunque in metropolitana per tornare a casa, subiscono le molestie di un ragazzo tedesco ubriaco, che accidentalmente uccidono nel tentativo di difendersi. Registrate dalle videocamere di sicurezza, scappano e Hazal prende la difficile decisione di emigrare di nascosto in Turchia, a Istanbul. Qui ritrova il suo amore Mehmet e il suo compagno di appartamento, il curdo dissidente Halil (Haydar Şahin). Nonostante il maggior respiro di cui gode nel paese di origine, presto si renderà conto che anche lì le manca la libertà esistenziale che tanto cercava in Germania, ritrovandosi nella condizione di fuggiasca squattrinata.

Uno dei pregi indiscussi dell’esordio di Özarslan è la ricerca di un ritmo serrato, conciso e senza fronzoli. Ciò non vuol dire affatto perdere il focus sulla storia, né tantomeno sulla sua splendida interprete, Melia Kara, che con la sua sola presenza riesce a rendere perfettamente il disagio di Hazal. Al contrario, ogni scena è giusta, misurata e veicola tutte le informazioni di cui lo spettatore ha bisogno. Né manca la poesia, il lirismo di uno sguardo che indaga con gentilezza l’intimità della protagonista, come avevamo visto anche in un bellissimo lavoro italiano, Maieti, di Matteo Boscolo Gioachina e Daniele Caruso.
Se dovessimo fare un paragone, oltre a elogiare l’attenzione verso l’attualità di alcuni giovani autori del nostro Paese, si potrebbe notare anche un modo diverso con cui il regista berlinese affronta qui la tematica identitaria dei ragazzi di seconda generazione. Se in Maieti la protagonista soffriva dall’interno, ossia il peso di avere un’ascendenza legata a tradizioni lontane da quelle del suo gruppo di amici, qui Hazal soffre dall’esterno. È infatti la società stessa il primo ostacolo alla sua affermazione esistenziale, nonostante parli fluidamente il tedesco e abbia compiuto un percorso di studi in Germania. È l’odio degli sconosciuti, dei suoi “compatrioti” a frustrarla. La sua famiglia è disillusa, per questo poi agisce apprensivamente sulla figlia. Maieti iniziava con un momento in cui la protagonista insegnava alcune parole della sua lingua a un’amica, in un’atmosfera ricca di tenerezza. Elbow comincia con una prova di colloquio lavorativo. Sono due facce di una stessa medaglia.
Qui però la medaglia non è né dorata, né d’argento o di bronzo. È di un materiale che ancora non possiamo riconoscere ed etichettare, proprio come Hazal stenta a fare verso il suo destino. Tant’è vero che poi quella stessa disoccupazione rifilatale in Germania la ritrova anche in Turchia, perché “è più difficile far ottenere il visto lavorativo a una straniera”. Insomma, all’insegna della poetica tipica di un coming of age, come anche nel recente Diciannove di Giovanni Tortorici, Hazal non è né carne né pesce. Vorrebbe essere presente ma non può, perché non glielo consentono. E allora che ne sarà di lei? Aveva forse ragione Carmelo Bene, quando da Costanzo affermava che bisogna anzitutto rinunciare alla volontà? Ma sarà mai questo il senso ultimo dell’esistenza di chi lotta contro le ingiustizie? Il tutto resta ancora da scoprire, racchiuso nello struggente sguardo brechtiano che Hazal ci lancia alla fine, prima di sparire tra la folla.