Tra gli autori più geniali, appassionati, caparbi e capaci della sua generazione, Gabriele Mainetti torna dietro la macchina da presa con La città proibita. La nuova attesissima pellicola, in sala da giovedì 13 marzo, sta già raccogliendo applausi e lodi ovunque. A distanza di quattro anni da Freaks Out, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia e immeritatamente poco considerato, il cineasta romano, classe 1976, si rimette in pista e confeziona un altro prezioso gioiello, che non solo eleva il cinema italiano nel mondo, ma continua a battere su una strada aperta – se non spalancata – da lui e assolutamente da percorrere in ogni direzione.
Gabriele Mainetti, una personalità dalle mille sfumature
Quando ci si imbatte in simili personalità, bisogna lasciarsi attraversare da ciò che mettono in campo, o meglio in scena, pronti ad accogliere e ammirare tutte le sfumature di un istinto che si nutre di arte (non solo la Settima) da sempre. Se nel percorso accademico di Mainetti troviamo una tappa fondamentale, ossia gli studi presso la Tisch School of the Arts di New York, quello che costituisce il fil rouge della sua carriera è, senza dubbio alcuno, una passione smisurata e profonda per il cinema.
Ne sono la dimostrazione tutti i suoi lavori, dentro i quali lascia sempre tracce di sé, di ciò che ama e predilige, di ciò che lo muove, ma anche di ciò che critica e respinge. Lo stile non è forse ancora così riconoscibile, lo è invece lo sguardo: puro, entusiasta, travolgente, irresistibile. Dinanzi a un’opera di Gabriele Mainetti si esce con il cuore pieno di emozioni, che crescono con il passare dei giorni e spingono al desiderio, alla voglia, alla necessità di tornare in sala per replicare l’esperienza. Oltre all’aspetto sentimentale, però, ne va considerato uno più oggettivo, che non si può sottovalutare e che costituisce uno dei punti di maggior forza, oltre che interesse, della sua filmografia (di cui fanno parte corti e lungometraggi): le tantissime suggestioni, esibite e sfruttate, che si scoprono di visione in visione, in un vortice che si allarga e affascina, e di cui si potrebbe parlare all’infinito.

Basette, l’inizio di tutto
Tralasciando, da questo discorso, le varie partecipazioni in veste di attore, utili sicuramente ad allargare conoscenze e competenze, molti dei progetti di Mainetti hanno infatti lasciato il segno, in Italia e nel mondo. A partire dall’indimenticabile cortometraggio Basette (2008), premiato con ben tre Nastri d’Argento – per il miglior attore (Daniele Liotti), la miglior attrice (Luisa Ranieri) e la menzione speciale alla sceneggiatura di Nicola Guaglianone – e altri riconoscimenti, ispirato alla figura del mitico Lupin III. A vestire i panni del protagonista, Antonio, c’è Valerio Mastandrea, perfetto nei panni del ladro gentiluomo, un po’ timido ma incredibilmente fascinoso; al suo fianco, gli immancabili Jigen, alias Franco (Marco Giallini, e chi altri sennò?), e Goemon/Tony (Liotti), insieme all’adorata Fujiko/Prisca (Ranieri) e alla nemesi Zenigata, l’ispettore (un incredibile Flavio Insinna). Omaggio esplicito, arguto e molto sentito al manga degli anni Sessanta, Basette è ambientato in una Roma di periferia, dove un gruppo di amici tenta una rapina alle poste, ma fallisce miseramente.
Dietro la facciata di genialità e di riconoscenza nei confronti di una serie, nonché di un personaggio, con cui il regista è cresciuto, si annidano una sensibilità e una poesia profonde. La nostalgia che pervade il corto si fa tangibile, mentre la commedia della vita assume una forma così particolare e vivida da rimanere impressa. Il gioco delle emozioni prosegue, tra alti e bassi, sino al finale, arricchito da un classico che più classico non si potrebbe: il tramonto.
Tra omaggi e cortometraggi
Tra i dieci finalisti per la candidatura agli Oscar 2014, Tiger Boy richiama alla mente un altro celebre personaggio dei manga giapponesi, L’uomo tigre. Anche in questo caso, Mainetti rielabora il mito e lo trasla in quella che è la sua realtà, una Roma verace ed evocativa, capace di sorprendere e di far soffrire, di accogliere e far sentire soli.
Quattro anni dopo è il turno di Ningyo (2016), presentato in anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia, in occasione del lancio della nuova Renault Scenic. Il corto ha dell’eccezionale, essendo strutturato in blocchi che lo spettatore può spostare a suo piacimento, creando storie differenti – dai titoli simbolici: Addio, Distacco, Ripensamento, Ritorno, Dubbio e Reminiscenza. Al centro ci sono due personaggi, interpretati da Alessandro Borghi e Aurora Ruffino, provenienti da mondi distanti ma destinati a incontrarsi. Poche parole ma tanti dettagli, a partire dall’omaggio a quel Giappone che l’autore porta sempre nel cuore. Quasi inedito, purtroppo, il corto dimostra in maniera incontrovertibile tutte le potenzialità insite nel mestiere e nella passione di Mainetti.
Il capolavoro di Gabriele Mainetti apre la strada a un nuovo cinema italiano
In questi anni (e in quelli a venire) Nicola Guaglianone è una presenza fissa e fondamentale nella filmografia di Mainetti, con il quale firma le sceneggiature dei corti e del suo esordio al lungometraggio: Lo chiamavano Jeeg Robot (2015) si rivela un capolavoro a tutti gli effetti, che ancora oggi non smette di entusiasmare. Aprendo la strada a un cinema di genere pressoché sconosciuto in Italia e pescando a piene mani in tutta una serie di suggestioni che spaziano dai supereroi agli anime, il film presenta delle figure memorabili – una su tutte, Lo Zingaro di Luca Marinelli – scene ormai cult e una romanità così potente da divenire universale. Mainetti si mette a nudo, la sua anima cinefila e profondamente romantica si mostra in ogni inquadratura, canzone, battuta.

Acclamato da pubblico e critica, il regista si prende il suo tempo e torna alla ribalta con un progetto ancora più ambizioso, ma forse meno riuscito. Freaks Out (2021) mantiene l’ambientazione capitolina ma cambia periodo storico: la Seconda Guerra Mondiale fa da sfondo alla storia di questi emarginati, dotati di qualcosa di particolare ed estremamente affascinanti, alle prese con una fuga che più che libertà significa accettazione.
Si arriva infine al titolo più recente e già apprezzatissimo, La città proibita (2025), che riporta Mainetti sull’Olimpo degli autori con la A maiuscola. La storia di Marcello (Enrico Borello) e di Mei (Yaxi Liu) solletica le corde delle emozioni, tra risate e lacrime, tanto kung fu e armi improvvisate, citazioni e celebrazioni. La romanità è, ancora una volta, la linfa di cui si nutre la narrazione, insieme all’ammirazione per un certo tipo di poetica orientale.
Unicità e umanità
Quando si dice che la classe non è acqua, si devono tenere ben presenti personalità simili. Determinato, inarrestabile, coraggioso, visionario, ma sempre estremamente lucido e consapevole, Gabriele Mainetti non è uguale a nessun altro, ma potrebbe essere l’iniziatore di un nuovo modo di intendere il cinema italiano.
La bellezza e la forza del suo sguardo si devono al suo essere genuino, vero, mai artefatto. L’entusiasmo che prova nel suo lavoro viene fuori naturalmente e travolge chiunque vi entri in contatto, così da creare una rete straordinaria, dentro la quale poter condividere ed emozionarsi insieme. Simpatici, imperfetti, a volte un po’ ingenui e vittime delle circostanze, i suoi personaggi mettono in scena un’umanità che più eterogenea non si potrebbe, forzando talvolta la mano su caratteristiche utili a sottolineare un messaggio o a stimolare una discussione.

Freaks Out. L’antagonista di Freak
Con Gabriele Mainetti la Settima Arte si arricchisce di un autore a tutto tondo, di cui forse non si sapeva di avere bisogno ma di cui ormai non si può più fare a meno.
*Salve sono Sabrina, se volete leggere altri miei articoli cliccate qui.