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Festival del Cinema Tedesco

‘Vena’ di Chiara Fleischhacker: l’intervista alla regista

Il film è approdato all'edizione in corsa del Festival del Cinema Tedesco. Ne abbiamo parlato con la regista

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Vena della regista Chiara Fleischhacker è stato presentato al Festival del Cinema Tedesco, proprio nelle ultime ore. L’opera, emotivamente densa e forte, riflette su temi di importanza e di respiro universale, come quello della maternità e dell’aborto. E diversi altri, senza – al contempo – rinunciare a raccontare una storia. Semplice, diretta. Reale.

Il film, presentato in concorso all’ultima edizione del Torino Film Festival, ha vinto il Premio speciale della Giuria IWONDERFULL e il Premio FIPRESCI (Premio della Federazione Internazionale della Stampa Cinematografica).

L’intervista a Chiara Fleischhacker

Vena concentra la sua attenzione sul tema di una nuova vita in arrivo, e d’altra parte, il rifiuto di questa stessa vita. L’intero film esprime tale doppia anima. Come mai questa scelta?

Direi che Vena ritrae una vita nel suo insieme, in tutta la sua complessità. Non è sempre solo positiva, soprattutto per le persone che lottano. Quindi, specialmente le persone che hanno lottato nella prima infanzia, che hanno difficoltà a costruire connessioni con gli altri, e vite stabili, non si mettono sempre in situazioni che sono buone per loro. Al contrario, perlopiù dannose, perché tutto dipende dall’autostima. Così Jenny, all’inizio del film, non si sente degna di amore e di essere circondata da persone che siano benefiche per lei, anche se profondamente lo vuole. Voglio dire, lei ha anche una dipendenza da sostanze, che è una malattia.

C’è questa doppia anima, perché penso che in ogni parte positiva della vita ci sia qualche fallimento, e anche nei posti peggiori del mondo c’è una certa speranza. Come in prigione, dove puoi ottenere storie di profonde connessioni tra le persone. Penso che il contrasto nella vita si palesi sempre, e che nel cinema sia solo maggiormente evidente. L’ambivalenza è qualcosa di tipico della vita.

Sembra che la cinepresa segua fedelmente la crescita personale e il cambiamento interiore di Jenny. In questo modo è più facile per il pubblico immedesimarsi nella storia. Quanto è stato difficile ritrarre una storia tormentata come questa? 

È un argomento difficile forse dall’esterno, ma per me è iniziato con un grande apprezzamento per Jenny come personaggio, così ho cominciato ad adorarla con tutte le sue capacità e con tutti i suoi desideri, come per esempio il glitter o la passione per i fiori. In questo modo mi sono connessa positivamente con lei e ho accettato tutti i suoi problemi. Ho parlato molto con le donne che hanno avuto una vita simile a Jenny, ho fatto tante ricerche, come più di cento conversazioni con donne. Sono sempre stata molto affascinata dalla stranezza.

Penso che si dovrebbe cercare di non giudicare persone come Jenny, in modo da poterle vedere allo stesso livello di altre. Solo in questo modo è possibile ottenere una connessione anche attraverso la camera e avvicinarsi a loro tramite lo schermo.

Sono rimasta molto colpita dal personaggio di Marla, l’ostetrica, in Vena. Lei rappresenta un respiro profondo nella lunga apnea che è la narrazione. Personalmente credi nell’importanza di ruoli come questi in vite che hanno attraversato esperienze traumatiche?

Sì, lo credo fermamente. Jenny ha provato molta frustrazione, ed è molto scettica verso la possibilità di ricevere aiuto dalle persone che la circondano, perché ha avuto molte brutte esperienze, quando la gente pensava di sapere cosa fosse giusto per lei e l’ha obbligata a farlo. Quindi per lei è davvero raro incontrare qualcuno che la rispetti sul serio come persona e che veda il valore puro che tutti hanno: Marla ha questa capacità, anche se inizialmente viene respinta da Jenny. Lei la incoraggia, le dice che può farcela, che è abbastanza degna di esserci per il suo bambino non ancora nato. Non si tratta solo di maternità, si tratta di autostima, che non è necessariamente collegata alla maternità.

Il ruolo di un’ostetrica, penso sia molto diverso da nazione a nazione, ma in Germania è un lavoro dove le persone vanno ben oltre i limiti del loro lavoro. Non sono ben retribuite, ma vengono a sapere davvero tanto sulla vita privata delle donne loro pazienti. Marla ha la sensibilità di sapere cosa è bene nel momento giusto e dà a Jenny un po’ di autostima, nello sviluppo della sua relazione con lei. Nelle proiezioni che abbiamo avuto di Vena, persone che fanno lo stesso lavoro di Marla hanno detto che tutto parte dalla capacità di costruire relazioni con le persone bisognose di aiuto. E Marla fa questo, pure oltre il limite. Ma qual è l’equilibrio tra distanza e connessione? Penso che questa sia la lotta di Marla, fino alla fine.

Il finale di Vena è ancora in salita e pieno di difficoltà per la sua protagonista. Come immagini la vita di Jenny dopo il film?

Vengono trattati un sacco di argomenti difficili nel film. Le ultime scene sono particolarmente traumatiche perché Jenny è separata da Lexa [sua figlia, ndr], ma ciò che di importante succede durante il film è che lei costruisce stima e rispetto di sé, e diventa più forte. Nella scena finale, spero che lei capisca di aver ottenuto qualcosa per se stessa che potrà fare suo per molto tempo ancora.

Desidero, ancora, che si metta in situazioni favorevoli per lei. A proposito di ciò, una settimana fa ho incontrato una donna che avevo conosciuto durante la fase di ricerche. Me la ricordo tre anni fa, era completamente diversa, rotta, ma era davanti a me, così forte. Lei adesso ha appena cominciato il periodo di riabilitazione, e ha riavuto i suoi bambini. Mi ha detto che questo le ha dato la forza; è ancora malata, e la dipendenza da sostanze farà parte di lei per molto tempo ancora, ma è stabile. Ha avuto bisogno di molto tempo per accettare se stessa, ma l’ha fatto, e mi piacerebbe che Jenny riuscisse a fare lo stesso.

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