Un autore da riscoprire
Quest’anno a livello di retrospettive il Bergamo Film Meeting ha voluto compiacere i palati fini persino più del solito. E lo ha fatto puntando con decisione verso l’Europa Orientale. Come se non bastasse l’imperdibile retrospettiva dedicata al grande cineasta georgiano Otar Iosseliani, il festival ha voluto rendere omaggio anche a un Maestro del cinema polacco, probabilmente meno conosciuto di altri qui in Italia: Wojciech Has, noto dalle nostre parti soprattutto per Il manoscritto trovato a Saragozza (1974).
Ultimamente ci avevano pensato CiakPolska e l’Istituto Polacco di Roma a rendere giustizia alla profondità della sua poetica, mostrando opere come Il cappio (Pętla, 1957) e Come essere amata (Jak być kochaną, 1962). Altri film li abbiamo scoperti durante la nostra trasferta in Lombardia. E tra questi vi è The Codes (Szyfry, 1966), forse uno dei più ostici ed ermetici sotto il profilo squisitamente narrativo, ma comunque in grado di sedurre lo sguardo e l’intelletto.

Tra dimensione storico-politica ed esistenzialismo
La scomoda eredità della Seconda Guerra Mondiale, delle tante tragedie umane avvenute sotto l’occupazione nazista, ha rappresentato un serbatoio pressoché inesauribile per la cinematografia polacca del secondo Dopoguerra. In una pellicola come The Codes tale canovaccio diventa anche però un pretesto per far uscire allo scoperto rimozioni profonde, stati di coscienza alterati, drammi esistenziali difficilissimi da rielaborare per chi li ha vissuti. Un po’ come avviene in tutta la filmografia di Has, verrebbe da dire.
Nel film in questione ha un ruolo anche la tensione dialettica tra chi è rimasto a vivere in Polonia, dopo la guerra, e chi è potuto emigrare in Francia o comunque in qualche paese occidentale: il protagonista Tadeusz (Jan Kreczmar) è per l’appunto un emigrato benestante, convinto a rientrare per pochi giorni in patria dalla lettera del figlio Maciek (Zbigniew Cybulski), il quale in poche righe lo metteva al corrente di un peggioramento della salute mentale della madre, già messa a dura prova dalla scomparsa e probabile morte del figlio Jpdrek, avvenuta proprio durante l’occupazione tedesca. In realtà nessuno dei personaggi di questo cupo racconto cinematografico riuscirà a liberarsi completamente dei fantasmi della guerra. E lo stesso Tadeusz, coinvolto suo malgrado nella ricerca di informazioni sul figlio minore scomparso, si ritroverà intrappolato in una detection labirintica traboccante di omissioni, lacune, inganni della memoria e verità troppo scomode per essere rivelate. Laddove non appare a lungo chiaro nemmeno se siano stati i nazisti o al contrario i membri della Resistenza a sbarazzarsi di Jpdrek, divenuto ormai una scheggia impazzita.

Tra onirismo spinto e una impossibile “detection”
Faticoso da seguire ma incredibilmente suggestivo, sia sul piano filosofico che su quello prettamente estetico, The Codes è frutto di una complessa tessitura, in cui ad alternarsi sullo schermo sono il tempo presente, flashback relativi al torbido passato della famiglia e allucinati momenti onirici. Sono soprattutto queste scene così surreali, sovente macabre, girate assemblando lunghe carrellate ed elaborati piani sequenza che possono ricordare la pressoché coeva estetica “tarkovskiana”, a generare le emozioni più forti.
Ma anche le sequenze ambientate nel presente possiedono un loro appeal emotivo, dato inoltre dalle interpretazioni così sofferte e introspettive offerte da un cast di prim’ordine; al suo interno spicca senz’altro nel ruolo del tormentato figlio maggiore quell’attore, Zbigniew Cybulski, considerato all’epoca una sorta di James Dean polacco, che è presenza costante non soltanto nelle opere di Has (Il manoscritto trovato a Saragozza, Come essere amata) ma pure nei capolavori di Wajda (Cenere e diamanti, 1958) o di Kawalerowicz (Il treno della notte, 1958). In lui, o meglio in quel volto incorniciato da occhiali la cui montatura scura e spessa ci appare altrettanto iconica, risiede uno spirito inquieto, la cui essenza ieri come oggi riesce a bucare lo schermo e a comunicare in profondità con lo spettatore.
